mercoledì 6 ottobre 2010

Medio Oriente: la pace ha bisogno dei cristiani. Joseph Yacoub: Costruttori di ponti, esperti di dialogo (Bernardelli)

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Medio Oriente: la pace ha bisogno dei cristiani

«Costruttori di ponti, esperti di dialogo»

Giorgio Bernardelli

Originario del nord della Siria, da più di trent’anni docente all’Università cattolica di Lione, il professor Joseph Yacoub è uno dei massimi studiosi al mondo sul tema dei diritti delle minoranze. Un campo di studio che in questi ultimi anni purtroppo ha dovuto affrontare sempre più spesso a partire da un’esperienza a lui particolarmente vicina: quella dei cristiani perseguitati in Iraq.

Professor Yacoub, come guarda al Sinodo che sta per aprirsi?

«Fin da quando il Papa ha annunciato la sua convocazione – un anno fa – il mio sentimento personale è stato di grande gioia e speranza. È la prima volta che un Sinodo abbraccia l’intera area del Medio Oriente. C’era stato il precedente del Sinodo per il Libano, ma questa volta lo sguardo abbraccia tutto il mondo arabo e poi anche l’Iran e la Turchia. Ed è molto importante questa prospettiva ampia su una regione che si caratterizza per l’instabilità e – penso in particolare al caso iracheno – per la persecuzione dei cristiani.
Sarà un momento importante di visibilità internazionale per i cristiani d’Oriente. E attirerà l’attenzione del mondo sulla loro situazione».

In Occidente, quando si parla di Chiese d’Oriente, il nostro pensiero va immediatamente al mondo bizantino. Invece a questo Sinodo sarà molto visibile anche un’altra grande tradizione, quella del cristianesimo siriaco. Che cosa dobbiamo riscoprire di questo mondo?

«Sì, è vero, si tende a identificare i cristiani non occidentali solo con la tradizione greca, quella bizantina. Ma quello che Giovanni Paolo II indicava come il secondo polmone della cristianità è fatto anche di altre tradizioni, come quella slava e – appunto – quella siriaca, figlia dei cristiani che parlavano l’aramaico. Ed è una tradizione che ha dato tanto al mondo cristiano con la sua spiritualità e con i suoi padri della Chiesa, come sant’Efrem che è dottore della Chiesa universale».

Ma, al di là della sua grande storia, qual è la sua attualità?

«Quello siriaco è sempre stato un cristianesimo impegnato a gettare ponti. E non solo per il fatto di essere stati il tramite tra la filosofia greca e il mondo arabo. Si sono spinti anche molto più in là: arrivarono in Cina molti secoli prima di Matteo Ricci, ponendosi già allora in dialogo con il mondo buddhista e taoista, in quella che noi oggi chiameremmo una prospettiva di inculturazione. Il segno più evidente sono le parole in siriaco che si trovano incise nella Stele di Xi’ian, testimonianza del VII secolo che narra dell’incontro tra la religione dell’Oriente cristiano e il mondo cinese. Ancora oggi non dobbiamo dimenticare che in India vivono 5 milioni di cristiani malabaresi, che sono appunto di tradizione siriaca.
Sono esperienze che parlano di un modello di incontro tra la fede cristiana e le culture locali che è di grandissima attualità. E in Asia c’è un interesse crescente per lo studio di questo volto del cristianesimo, che è precedente rispetto all’arrivo dei missionari occidentali in epoca coloniale».
Il versetto degli Atti degli Apostoli scelto come guida per questo Sinodo parla della «moltitudine di coloro che erano diventati credenti».

Sembrerebbe un’immagine un po’ bizzarra visti quelli che sono oggi i numeri dei cristiani in questa regione...

«La parola moltitudine richiama il fatto che il Medio Oriente è plurale: la presenza di popoli, etnie, religioni diverse è una delle sue caratteristiche fondamentali. Non c’è democrazia vera senza il riconoscimento di questa verità.
E in questo contesto è importante che anche la Chiesa abbia un volto plurale. Sono sette le Chiese che partecipano a questo Sinodo e ciascuna ha la sua liturgia, la sua teologia, la sua organizzazione. Ci tengono alla loro specificità i fedeli ci ciascuna di queste Chiese ed è un fatto importante. Ma nello stesso tempo si riconoscono in comunione con il Papa. Questa pluralità nell’unità è un segno prezioso. E che oggi va declinato in un contesto nuovo. Perché lo statuto di queste Chiese non è più quello di un tempo: l’Instrumentum laboris utilizza l’immagine evangelica del 'piccolo gregge' che deve incontrare tante sfide politiche, religiose, economiche. Deve affrontare la sfida del fondamentalismo, che non rispetta la libertà di coscienza sancita dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e quindi minaccia questo volto plurale».

Che cosa può dire questo Sinodo alle società musulmane del Medio Oriente?

«L’ Instrumentum laboris insiste sull’importanza del dialogo nonostante tutti i problemi che conosciamo. Lo fa senza ignorare le preoccupazioni per l’aumento del fondamentalismo islamico e le minacce, le persecuzioni, gli omicidi che hanno avuto luogo in questi ultimi anni contro i cristiani in tutto il Medio Oriente e in Iraq in particolare. A me pare importante che rilanci questo dialogo mettendo l’accento su quella che Benedetto XVI chiama laicità positiva. Si tratta di una parola decisiva per una regione del mondo dove in alcuni Paesi lo Stato è islamico e la sharia è applicata non solo nella vita privata ma anche nei rapporti sociali. Non una laicità qualsiasi, ma l’idea di una laicità positiva è la risposta a questo problema.
Perché permette di ridurre il carattere teocratico dei regimi senza pretendere di svuotare dell’elemento religioso la vita pubblica. È la strada per uscire da ambiguità come quelle della nuova costituzione irachena e riconoscere davvero l’uguaglianza tra cittadini di religione diversa. Ma mantenendo però la forza morale insita nelle religioni come un criterio di riferimento etico per la società».

Quali speranze ripone la Chiesa caldea dell’Iraq in questo Sinodo?

«I caldei – come tutte le altre Chiese in Iraq – attendono questo Sinodo con grande trepidazione. Se n’è parlato molto sulle loro pubblicazioni in inglese, in arabo, in aramaico: vedono in questo evento un segno del fatto che non sono stati abbandonati. Si guarda al Sinodo da Baghdad, da Mosul ma anche dalla diaspora: pochi giorni fa ho incontrato una famiglia di rifugiati che si trova in Turchia; mi hanno espresso il loro auspicio che a Roma si parli anche della loro condizione. Che si solleciti il mondo a dare delle prospettive a queste centinaia di migliaia di persone»

© Copyright Avvenire, 3 ottobre 2010

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