sabato 9 gennaio 2010

Benedetto XVI, la questione su Dio e il "Cortile dei Gentili". Una riflessione di Don Nicola Di Bianco


Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:

BENEDETTO XVI, LA QUESTIONE SU DIO E IL «CORTILE DEI GENTILI»

di Don Nicola Di Bianco

Docente di teologia biblica all'Istituto Teologico Salernitana

Il discorso alla Curia Romana di Benedetto XVI in occasione degli auguri per il santo Natale e per il nuovo anno si è soffermato nella sua parte conclusiva su un tema significativamente impellente: “la questione su Dio”. Il papa ha ricordato agli alti prelati convenuti: «Considero importante soprattutto il fatto che anche le persone che si ritengono agnostiche o atee, devono stare a cuore a noi come credenti […] dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde».1 L’affermazione manifesta quanto stia a cuore al papa che nell’uomo contemporaneo non si estingua la domanda su Dio e che si alimenti il sentimento di nostalgia, che abita il cuore di chi ancora non ha conosciuto l’amore di Dio.
A tal proposito ha evocato la scena evangelica della cacciata dei venditori dal tempio (Mc 11,17), che avevano occupato lo spazio (“il cortile dei gentili”) riservato a coloro che, pur non appartenendo al popolo eletto, perché erano gentili, volevano pregare l’unico Dio. La vasta area che comprendeva la costruzione del tempio interno, al quale si accedeva attraverso la porta bella, era uno spazio riservato alla preghiera per tutti i popoli, secondo le indicazioni teologiche della profezia isaiana: «La mia casa sarà casa di preghiera per tutti i popoli». (Is 56,7).
Rudolph Pesch in proposito afferma: «Pronunciando le parole di Is 56,7c nel cortile dei gentili, ove si svolge la scena, Gesù rivendica il tempio intero come luogo di preghiera, di adorazione a Dio per tutti i popoli […] Nel cortile dei gentili egli sostiene la santità dell’intera area del tempio ed insiste perché venga consentita l’adorazione di Javhé anche ai pagani che vi potevano sostare. Non rivendica un culto privo di sacrifici, né disturba lo svolgimento dei sacrifici all’interno del tempio; essi avevano luogo indipendentemente dalla vendita di oggetti ed animali sacrificali che avveniva nel cortile dei gentili».2

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Benedetto XVI ci ricorda che in quel luogo si radunavano «persone che conoscono Dio per così dire, soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto”».3 (At 17,23) Per il pontefice anche chi “prega il Dio ignoto” è in qualche modo in relazione - “in mezzo ad oscurità di vario genere” - con “il Dio vero”. Lo storico francese Henri Daniel-Rops nel suo celebre saggio, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, riferisce: «Varcata la soglia del portico di Salomone si mette piede su un grande spiazzo rettangolare – oggi quello della cupola della Roccia – il cui lato più lungo misura non meno di 500 cubiti, ossia 225 metri, forse anche più. É il “cortile dei gentili”, così chiamato perché possono entrarvi tutti i goyim, i pagani, uomini e donne, e perfino gli eretici e gli scomunicati, le persone in lutto e coloro che sono legalmente impuri. Quel “tempio esterno”, come lo chiama Giuseppe Flavio, è, a dire il vero, una piazza pubblica, l’equivalente di quello che a Roma è il foro e ad Atene l’agorà. Ci si viene per parlare di tutto e di niente, per passare il tempo, per chiacchierare e per fare affari».4 La descrizione qui richiamata rivela che la proposta del papa appare quanto mai utile a rilanciare in chiave pastorale il dialogo tra i credenti e i non credenti. Allo stesso tempo demolisce ogni velleità di fare del cristianesimo una religione con pretese esclusivistiche, sia in relazione alle altre religioni monoteistiche che in relazione ai non credenti. La prospettiva del papa è palesemente inclusivista e come tale riconosce che chi aspira al Puro e al Grande e si relaziona anche solo a un “Dio ignoto” è già in cammino verso il “Dio vero”. La religione ebraico-cristiana non istituisce alcuna separazione tra “chiamati” ed “eletti” e questi sono tali in forza dell’universale vocazione di tutti gli uomini alla salvezza.

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La parola del papa, infine, si fa ancora più audace quando categoricamente afferma: «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato accesso al suo mistero…».5 L’espressione surriferita, tradotta nelle sue implicazioni socio religiose, dovrebbe provocare una rivoluzione copernicana all’interno della pastorale ordinaria, troppo spesso occupata a celebrare sacramenti e a offrire catechesi, col solo scopo di nutrire la fede del piccolo gregge dei praticanti.
Le recenti indagini socio religiose ci offrono una radiografia del corpo sociale che evidenzia l’urgenza di un «dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto».6 Come tradurre il pressante invito formulato dal santo padre ad aprire il “cortile dei gentili” per creare uno spazio di dialogo tra credenti e non credenti? Proviamo a dare attuazione all’ideazione papale. A mio giudizio per tradurre in concreto questo giusto rilievo del santo padre non è necessario conquistare spazi nel nuovo areopago mediatico, partecipando a talk show, tavole rotonde, dibattiti, ecc…
Qualora se ne ravvisasse l’utilità e fosse necessario, tali forme di evangelizzazione, con la dovuta moderazione e con lo stile proprio di persone appartenenti al ceto ecclesiastico, possono risultare efficaci. Ma ritengo oltremodo prioritario e improcrastinabile abbandonare uno stile pastorale che, in non poche circostanze, si esprime nella predicazione e nell’attuazione pastorale con espressioni che manifestano scarso rispetto e, talvolta, biasimo nei confronti dei lontani, degli agnostici, degli atei o di coloro che hanno abbandonato la fede pubblica, pur conservando un’interiore nostalgia del divino. Ancor prima di impegnarsi a costruire dialoghi mediatici, buoni più per aumentare l’audience di reti in declino di ascolti e per occupare il tempo libero dei potenziali spettatori che per raggiungere il gregge smarrito, è necessario preoccuparsi di aprire o ri-aprire “cortili” intorno al tempio, dove la gente vive, e dove i pastori sono chiamati a testimoniare la loro fede nell’uomo, oltre che in Dio, e la carità accogliente verso i lontani per provocarne un possibile riavvicinamento. Grazie a Dio abbiamo ai nostri giorni, pur tra l’indifferenza e la sufficienza di molti, numerose occasioni per avvicinare e suggerire a tanti una rinnovata ripresa della pratica cristiana.
Ogni pastore di comunità è chiamato perciò a suscitare nel cuore del popolo a lui affidato i sentimenti che ispirarono il salmista che pregava nel suo pellegrinaggio verso il tempio di Gerusalemme: «Quanto sono amabili le tue dimore, / Javhé degli eserciti! / L’anima mia languisce e si strugge / per gli atri di Javhé […] Un giorno nei tuoi atri, sì, / vale più di mille. / Ho scelto di stare sulla soglia del mio Dio / piuttosto che dimorare nelle tende degli empi” (Sal 84, 2-3.11) Qui gli “atri” di cui parla il salmista indicano il luogo dove si accalca la folla dei pellegrini e dei fedeli per giungere alla “casa” vera e propria, il tempio davanti al quale si ergono gli altari. Proviamo ad adottare un rinnovato stile pastorale per convertire noi stessi e le aree limitrofi ai nostri templi in accoglienti “cortili”, solo allora anche i nostri fedeli da passanti distratti si muteranno in ferventi pellegrini.

3 commenti:

Maria R. ha detto...

Mi è piaciuta molto la riflessione sulla "modalità" di attuare quanto desiderato dal Papa; oggi si abusa dello strumento televisivo, come fosse l'unico "salotto" in cui cercare di convincere gli altri (non cristiani o non praticanti) della "bontà" della verità di fede, mentre invece si puo' fare altro, anche piu' spicciolo se vogliamo, ma che è base per tutto il resto.
D'accordissimo anche col riferimento alla necessità di cambiare "linguaggio" dal pulpito, prima di tutto "abbassando la voce", perchè gridare non è sempre sinonimo di farsi capire!

Anonimo ha detto...

Per me , in un certo senso, c'è già questo atrio: si chiama MARIA, in ispecie i suoi santuari. E' lì che possono avvicinarsi i lontani.

sam ha detto...

10 e lode all'Anonimo! Ottima riflessione. E vera. A me e a tanti altri è successo proprio così.