martedì 1 giugno 2010
Card. Kasper: «Pio XII e Shoah, dialogo aperto» (Borraccino)
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Su segnalazione di Alessia leggiamo:
INTERVISTA
«Pio XII e Shoah, dialogo aperto»
Manuela Borraccino
Confessa di «aver avuto paura, come tedesco» ad assumersi la responsabilità di guidare il dialogo del Vaticano con il mondo ebraico. Ma allo stesso tempo, rimarca il cardinal Walter Kasper, l’invito di papa Wojtyla gli apparve un’occasione storica di contribuire alla costruzione di una nuova stagione del rapporto fra Chiesa e popolo d’Israele. Proveniente da una famiglia fortemente anti-nazista, vescovo nei decenni nei quali la Germania faceva dolorosamente i conti con il proprio passato e docente di Teologia all’indomani del Concilio Vaticano II e della pubblicazione della Nostra aetate, il porporato settantasettenne che da undici anni tesse il dialogo della Santa Sede con gli altri cristiani e con gli ebrei rievoca il "suo" ’900 e traccia un bilancio dell’esperienza romana. Malgrado le difficoltà, dice, non mancano i segnali che fanno ben sperare.
Nella sua storia personale, che cosa ha rappresentato la chiamata a Roma nel 1999 a capo della commissione per i Rapporti con l’ebraismo?
«Confesso di aver avuto paura all’inizio, come tedesco, ad assumermi questa responsabilità. Nessuno oggi, soprattutto fra i più giovani, può immaginare quale aberrazione sia stata il nazismo. Se ripenso a quegli anni, oggi che ne ho settantasette, mi rendo conto di aver vissuto nella mia vita cambiamenti enormi. Sono nato in un paesino lontano dai grandi centri culturali tedeschi, dove non c’erano ebrei, dove non arrivavano giornali ma solo la propaganda nazista, e dove per molto tempo non si seppe quello che era realmente accaduto durante la guerra… Sono cresciuto in una famiglia fortemente anti-nazista: ricordo quello che i miei genitori mi dicevano contro il nazismo e le loro raccomandazioni di non ripetere mai a scuola quel che ci insegnavano, quasi in clandestinità, abituandoci fin da bambini al pensiero critico contro l’ideologia che il regime inculcava. La vita dopo la guerra era povera, serviva tutto; ma più di tutto durante il liceo ero affascinato dal processo di ricostruzione democratica della Germania. Quello che si scoprì molti anni dopo sulla Shoah, sulla portata immane del genocidio ebraico, è stato per decenni fonte di grande vergogna per la nazione ed ha aperto un ripensamento all’interno del Paese sui crimini che erano stati perpetrati; la Germania ha fatto molto per stabilire una verità storica sul nazismo. Dunque sono cresciuto con la coscienza di ciò che la Shoah aveva rappresentato nella storia dell’umanità e del dovere, anche all’interno della Chiesa, di condannare l’antisemitismo in ogni sua manifestazione. Quando Giovanni Paolo II mi chiamò a Roma, accettare questa responsabilità ha significato poter assolvere un dovere morale e oggi penso che abbiamo costruito qualcosa di duraturo non solo con Israele ma nell’ebraismo mondiale».
Che bilancio traccia di questa sua esperienza?
«Per me ha rappresentato l’occasione per riparare come vescovo e come tedesco al male che era stato fatto. E debbo dire che mai nessuno, forse anche per le mie posizioni note a tutti su questo tema, neppure una volta fra tutte le personalità ebraiche incontrate ha mai fatto cenno alle mie origini tedesche e alla tragedia della Shoah. Certo, è tragico che fosse necessaria la catastrofe della Shoah per ripensare il rapporto della Chiesa con gli ebrei, per abbandonare teorie del passato come quella sulla "sostituzione dell’Alleanza"… Ma abbiamo imparato molto. In questi undici anni a Roma ho in un certo senso scoperto il mondo ebraico: sono nate amicizie sincere e questa è per certi versi l’eredità più profonda che mi rimane di questa esperienza».
Eppure non mancano frizioni: lei stesso riceve periodicamente le richieste del mondo ebraico perché il Vaticano levi la sua voce in difesa degli ebrei. Come giudica queste pressioni?
«Certamente le ferite del passato restano, non possiamo dimenticare quello che è avvenuto e il fatto che siano ancora vivi molti sopravvissuti della Shoah deve essere un ammonimento per tutti noi per non dimenticare: è molto commovente per me, ogni volta, ascoltare le storie dei superstiti. Devo dire però che negli ultimi anni si è cominciata a registrare un’inversione di tendenza: proprio all’interno del mondo ebraico si dichiara sempre più spesso "abbiamo parlato abbastanza del passato, è tempo di guardare al futuro". E proprio per questo negli ultimi anni si è parlato maggiormente di ciò che il cristianesimo e l’ebraismo hanno da dire sull’ambiente, sulla giustizia sociale e lo sviluppo, sulla libertà religiosa nel mondo».
A cinque anni dall’elezione di papa Ratzinger, cosa replica a quanti lamentano che, dopo l’accelerazione che si è avuta nel riavvicinamento con il mondo ebraico con Giovanni Paolo II, ci sia stata una battuta d’arresto, se non una regressione, con il papa attuale?
«Lo ritengo un giudizio del tutto ingiusto. Certamente Giovanni Paolo II era geniale nei suoi gesti, nelle sue intuizioni: l’atto di lasciare la sua preghiera con la richiesta di perdono per le colpe del passato nel Muro del Pianto rimane nella storia. Eppure Benedetto XVI, pur con uno stile diverso, non è da meno: fin da quando era professore e vescovo ha avuto a cuore il dialogo con il popolo dell’Antica alleanza. Ed io ritengo che sul piano teologico vada molto più in profondità del predecessore alle radici della fede ebraica e cristiana a scandagliare i punti di contatto e le differenze. Sì, è vero, Benedetto XVI ritiene che ebrei e cristiani debbano dialogare nella consapevolezza della loro identità, e facendo attenzione a non livellare le differenze viste le diverse idee sulla natura di Dio: tale impostazione va rispettata. Tuttavia non c’è alcun dubbio che egli voglia proseguire sulla strada della riconciliazione, del riavvicinamento con il popolo ebraico tanto quanto papa Wojtyla e che voglia andare molto più in profondità del predecessore. E questo nonostante lo stallo del processo di pace, la distanza rispetto alla posizione della Chiesa cattolica che continua a promuovere e incoraggiare la soluzione di due popoli in due Stati liberi, sicuri e sovrani che devono necessariamente collaborare, per quanto arduo possa sembrare oggi».
Proprio durante il viaggio in Terra Santa Benedetto XVI è stato criticato per quello che ha detto e anche per quello che non ha detto…
«Personalmente sono rimasto deluso da certe reazioni. Il papa aveva già detto tutto appena atterrato a Tel Aviv, in aeroporto. Perché avrebbe dovuto di nuovo ripetere le stesse cose nello Yad Vashem? In quel sacrario il papa ha fatto un discorso di grande profondità sul significato del "nome", su come i nomi siano indelebili, le storie incancellabili. E a Betlemme ha fatto un discorso altrettanto difficile, sulla necessità della riconciliazione e di riconoscere i diritti umani inalienabili del popolo palestinese. Ha detto tutto ciò che voleva dire e che gli era stato chiesto dalla Chiesa locale di dire… C’è molto pregiudizio in certe posizioni».
La causa di beatificazione di Pio XII sembra alle battute finali. Non teme che possa avere un impatto negativo sul dialogo?
«Mi preme sottolineare quattro punti. Primo: la Shoah è certamente una ferita profonda, che va studiata a fondo anche nella Chiesa, e le richieste di aprire l’Archivio vaticano sono comprensibili. Ma, come si è già visto negli ultimi vent’anni, una cosa è rendere accessibili i documenti e tutt’altra è conoscerli e interpretarli: fino alla fine del mondo non si potrà mai mettere la parola fine a questo dibattito. Secondo: ho l’impressione che molti ebrei, soprattutto in Israele, non conoscano gli sviluppi recenti della ricostruzione storiografica sulla Shoah. Si dimentica, ad esempio, la conoscenza che Golda Meir ha dimostrato di avere sul ruolo di Pio XII nel salvataggio degli ebrei, o la scoperta che l’autore de Il Vicario, Hochhuth, era in realtà una spia del Kgb. Terzo: non si può giudicare l’operato di Pio XII alla luce del Concilio Vaticano II. La Nostra aetate è venuta dopo, e poi dobbiamo dirlo con franchezza: Pacelli non era certo antisemita ma è un fatto che la sua formazione fosse permeata dell’anti-giudaismo che è stato per secoli insegnato nella Chiesa. Si deve riflettere sulla totale diversità di percezione: sono passati più di sessant’anni, non possiamo applicare a quei tempi i parametri di oggi. Quarto: un’eventuale beatificazione non corrisponde in alcun modo ad un giudizio storico sull’operato di Pacelli. La beatificazione rappresenta un discernimento spirituale sul fatto che il papa ha agito obbedendo in coscienza alla volontà di Dio in quella che è stata una delle epoche più difficili della storia contemporanea, secondo quelle che in quel momento, e non alla luce di quello che si è scoperto molti anni dopo, gli sembravano le decisioni migliori da prendere per salvare il maggior numero possibile di vite umane. Secondo la traduzione ebraica un uomo è giudicato secondo quello che ha fatto e non solo secondo le sue parole; e Pio XII ha fatto moltissimo per gli ebrei».
© Copyright Avvenire, 1° giugno 2010 consultabile online anche qui.
Mah...mah...mah! Speriamo che in futuro si riescano a mettere punti fermi senza farsi schiacciare da richieste altrui, non accoglibili.
Quanto alle domande, dispiace constatare che nessuno, nemmeno i giornalisti di Avvenire, riescono a sfuggire alla logica, logora, noiosa e ormai francamente insopportabile, del continuo confronto.
R.
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6 commenti:
OT.
I lefebrviani ordinano tre nuovi sacerdoti nel territorio della diocesi di Ratisbona. Duro replica di Mons. Mueller: "Un affronto a Papa Benedetto XVI".
http://www.mittelbayerische.de/nachrichten/oberpfalz-bayern/artikel/piusbrueder_weihen_priester_in/555873/piusbrueder_weihen_priester_in.html
Alberto
Raffa, oggi mi sento buona.
Questo tipo di intervista mi sembra concordata e le domande sono state poste in un certo modo non per fare un confronto fra l'atteggiamento dei due Papi, ma, al contrario, per evidenziare, tramite le risposte di Kasper, quanto siano assurde certe accuse a Papa Benedetto. Almeno così mi pare :-)
Alessia
i vescovi tedeschi dovrebbero lasciare in pace i lefebvriani e occuparsi dei problemi delle loro diocesi.
speriamo che quello di Kasper sia finalmente il canto del cigno e poi non lo si senta più!
non si capisce perché i Lefebvriani dovrebbero 'congelare' le loro attività pastorali. Non mi pare che il Papa glielo abbia chiesto!
Risulta ci sia stato l'OK del Papa?
Perché in caso contrario la mossa è arbitraria.
Alessia
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