mercoledì 24 febbraio 2010
Dopo l’invito del Papa a non confondere Bene e Male, viaggio con Manlio Sgalambro nel complesso territorio della nostra condizione terrena (Paradisi)
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Per il filosofo siciliano il peccato è proprio ciò che rende ”le creature finite” diverse da Dio. Gli uomini, da soli, non si liberano dal male
Dopo l’invito del Papa a non confondere Bene e Male, viaggio con Manlio Sgalambro nel complesso territorio della nostra condizione terrena
Umano, Disumano
di Riccardo Paradisi
L’ultimo, irto, libro di Manlio Sgalambro si chiama Del delitto.
La tesi, in soldoni da quarta di copertina, è questa: «Se è vero che le vicende della sua vita sono parte integrante dell’importanza di Socrate, si deve comunque dare tutto il rilievo possibile al fatto che egli morì assassinato.
Tuttavia Platone omette pietosamente quella parola, e dal canto suo Nietzsche afferma - certo a ragione - che Socrate volle morire».
«Ma chi desidera morire – osserva Sgalambro – si trova intrappolato in una insana contraddizione, giacché nello stesso tempo vuole vivere. E così fu anche per Socrate, che delegò infatti il compito a un ”benefattore” (euergetikós) - così egli definì l’assassino - e con ciò introdusse una volta per tutte nella filosofia la figura dell’omicida».
Insomma, Sgalambro pone un problema concreto: riassumendo, e sempre in soldoni, dice: «Socrate voi lo definite il giusto per eccellenza e però è vi resta nascosto il lato oscuro della sua vicenda.
Egli è il mandante di un omicidio. Il suo omicidio certo, però l’affidare a qualcuno l’incarico di farsi uccidere è ha trasformato l’assassino che lo uccide un assassino».
Scherzi della filosofia, che non semplifica, ma complica e molto le cose.
Anche se i filosofi, dice Sgalambro,hanno per lo più evitato di porsi le domande cruciali che derivano dal paradosso di Socrate: quale mistero cela il delitto in se stesso?
Chi è l’assassino, nella sua essenza? E tra la vittima e il carnefice, tra Caino e Abele, c’è poi tutta questa differenza? Domande che invece non teme di affrontare Sgalambro, esploratore delle zone vulcaniche del pensiero, spingendo lo sguardo verso quel punto dove l’espressione «L’uomo è mortale non significa in primis che l’uomo muore - insigne banalità concettuale -, ma che l’uomo è datore di morte». L’uomo è datore di morte secondo Sgalambro, sommo male e ingiustizia per i viventi, ma è anche datore di altri mali meno definitivi ma non meno gravi: mentire, rubare, per esempio.
Azioni che, ha sostenuto il Papa nella sua ultima lectio divina – e così siamo venuti al punto – tendono a essere giustificati come debolezze umane.
Invece dice Benedetto XVI umane non sono. Ponendo un altro problema.
A chi meglio che al filosofo siciliano Manlio Sgalambro sottoporre dunque il dilemma: «È umano troppo umano mentire e rubare oppure è umano e basta?» «Lei mi pone questa domanda a tarda mattinata per scrivere poi la mia opinione su un giornale. Io le risponderò – riflette paziente il filosofo – ma sappiamo entrambi di darci un compito impossibile. Parliamone pure però.
E cominciamo col dire che a me, sentendo le parole del Papa, è venuto in mente Lutero: pecca fortiter ma credi ancora più fortemente.
Il peccato è una questione centrale nella dottrina cristiana e rubare e mentire sono dei peccati, come uccidere, compiere atti impuri, disonorare il padre e la madre, eccetera. Ma il peccato non distingue l’uomo dall’animale – che per definizione non pecca, ma segue la morale del suo istinto – o da un’indeterminato inumano o subumano, lo distingue semmai dall’increato, ossia da Dio. È il peccato che render l’uomo creatura finita, peccaminosa per natura.
Da questa verità fondamentale, che il cristianesimo propone, le varie obbedienza cristiane si sono confrontate e divise. Lutero immette una nuova visione del peccato: pecca fortiter ma credi ancora più fortemente. Una tesi a cui si reagisce con forme di edulcoramento.
I gesuiti, in piena controriforma, parlarono della guida dell’intenzione, portarono il peccato a tutt’atra cosa. Nel ‘700 sorge una teologia particolare: dove ci si chiedeva se un ragazzo che tocca il seno di una ragazza pecca per solo aver toccato quel seno. Magari egli vuole semplicemente toccare il seno, se invece è l’intenzione iniziale quella di voler toccare il seno per un atto sessuale è cosa diversa. Altra cosa ancora è se sopraggiunge la voluttà durante un atto che in origine non aveva intenzioni peccaminose. Causidismi, che rivelano però l’ossessiva attenzione al centro teologico del cristianesimo: il peccato.
Ora il papa pensa a portare la critica al peccato sul piano sociale ma la dottrina fondamentale del cristianesimo ha il suo perno sulla finità della natura umana: il peccato non è né sovraumano né sottoumano.
Credo che le parole del Papa siano una variante sul tema della riflessione sul peccato. Non credo intendesse considerarlo inumano o qualcosa di diverso dall’umano, ma suggerire che la realizzazione dell’umano sia il cammino per liberarsi dal peccato. In un capitolo della summa teologica, ci sono passaggi fondamentali dove si attribuisce all’uomo questa qualità di peccatore, dove si può escludere che il peccato porti l’uomo a qualcosa di inferiore alla sua umanità. Ecco, interpretata così mi sembra, che il Papa abbia di voler dire qualcosa per aggiustare certi guai anche concettuali dei nostri tempi».
E in effetti c’è chi ha messo le parole del Papa in relazione con quanto sta accadendo nella politica e nella società italiana: «Nell’uomo politico – ha scritto Sgalambro – si incarna lo stato medio di una società – i vizi, le mediocrità, i difetti – come se egli ne assorbisse i mali alla maniera dei vecchi stregoni che succhiano la ferita purulenta succhiandone anche il maleficio.
Così i loro vizi, le turpitudini, il malaffare, sanno di qualcosa di diverso. È come se essi imbrigliassero tutto ciò che di turpe vi è in una convivenza e ne liberassero gli altri».
È insomma come se chi cerca e detiene il potere si sottoponesse inconsciamente a un sacrificio anche per gli altri, rendendo se stessi schiacciati sulla forma e dunque estinguendosi. A dimostrazione che il peccato è una cosa complicata.
E comunque al netto di torsioni e cavilli gesuitici sul peccare, o dell’estremismo luterano, l’elemento limite che ci distingue da Dio è proprio il peccato. «Non la finitezza esistensizalista,– insiste Sgalambro – ma proprio il peccato. Il resto è un puro discorrere di cenere e di fumo perché il peccato è l’elemento limite che ci distingue da dio.
E rinunciare al peccato non significa rinunciare alla condizione dei peccatori, ma fare le cose che i cristiani sostengono che devono essere fatte mondandosi dal peccato». C’è da domandarsi, e lo fa venire in mente un gruppo di abietti su facebook che chiedono la soppressione dei bimbi down, se sia umano eliminarli invece in sede prenatale.
«Questi gruppetti di cui lei mi parla non sono degni d nota, sono spazzatura, roba da non so se prendere troppo sul serio.
Facezie non innocenti ma innoque. Con il nazismo invece è accaduto davvero.
L’eliminazione intendo dei diversi. Qualcosa che l’umano ha pensato e agito. È umano anche questo? E umano selezionare gli uomini prima o dopo la nascita e decidere se farli vivere o eliminarli? Di che parliamo di ontologia o di morale? È complesso usare queste categorie di umano non umano in una conversazione dove non si pongano le regole del linguaggio da usare, del paradigma di riferimento dentro cui ci si muove. La filosofia occidentale è una filosofia ontologica e la filosofia occidentale queste cose le mette nel novero di ciò che l’umano è capace di fare.
Risponderebbe che è umano, molto umano, anche l’orrore»
© Copyright Liberal, 23 febbraio 2010 consultabile online anche qui e qui.
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