domenica 22 agosto 2010

Secondo Antonio Garro potrebbe non essere Celestino V "colui che fece per viltade il gran rifiuto"


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Il "gran rifiuto" lo espresse Pilato Dante non pensava a Celestino V

Ma l'Alighieri potrebbe anche riferirsi a Matteo Rosso Orsini che non accettò di fare il Papa

Antonio Garro

Chi era in realtà l'ombra in cui s'imbattè Dante nel terzo canto dell'Inferno nel girone degli ignavi?
La tesi che si trattasse di Celestino V, il papa del quale si concludono in questi giorni le celebrazioni legate all'8. centenario della nascita, è da qualche tempo confutata da alcuni studiosi. Essa vuole, infatti, condannato alla perdizione eterna un sant'uomo, cosa assolutamente estranea alle convinzioni religiose di Dante e alla sua concezione dell'aldilà: così vanno sostenendo diversi relatori nei convegni e seminari dedicati in questi mesi al monaco strappato nel 1294 al suo eremo per guidare la Chiesa in un momento storico particolarissimo: di lì a poco, non a caso, la sede pontificia sarebbe stata spostata da Roma ad Avignone. Un papa, Celestino V, il cui nome al secolo era Pietro di Angelerio, trasformato nella vita religiosa in Pietro da Morrone, diventato famoso per le sue dimissioni dal soglio pontificio.
«Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto»: questi i versi danteschi a lungo saldamente ritenuti come riferiti appunto a Pietro da Morrone, interpretazione però ultimamente sempre meno condivisa: Celestino rinunciò a un mandato regolarmente accettato, seppure con riluttanza, evidenziano i sostenitori della tesi secondo la quale il nostro sommo poeta - che conosceva benissimo i significati dei vari termini utilizzati nei suo scritti - assolutamente non pensava a lui, esprimendosi in quel modo. Tale opinione registra sostenitori in crescendo in particolare da quando Maria Burani ha dedicato grande spazio all'argomento con un libro edito da Città Nuova.
A chi intendeva riferirsi, allora, l'Alighieri? Le convinzioni che si fanno strada sono diverse: si parla, per esempio, di Esaù, di Romolo Augustolo, di Giuliano l'Apostata, ma le ipotesi maggiormente seguite vogliono che egli pensasse a Ponzio Pilato oppure al cardinale Matteo Rosso Orsini.
Esaù, figlio di Isacco e prediletto dal padre, rinunciò alla primogenitura, a favore del fratello Giacobbe, per un piatto di lenticchie. Romolo Augustolo lasciò, in cambio della vita, che le redini dell'Impero romano d'Occidente passassero dalle sue mani in quelle del barbaro Odoacre. Giuliano l'Apostata abiurò la fede cristiana dello zio Costantino per mantenere il comando di Roma nel cuore del III secolo. Ma soprattutto furono Ponzio Pilato e Matteo Rosso Orsini ad esprimere un rifiuto grave, che potrebbe benissimo aver fatto meritare loro la punizione che Dante descrive, nella Divina Commedia, nel suo canto dedicato ai pusillanimi, cioè a coloro che «visser sanza infamia e sanza lode». Pilato, chiamato a decidere se condannare a morte o meno Gesù, infatti, si "lavò le mani" del caso, lasciando che la gente di Gerusalemme, sobillata e inferocita, ne decretasse la crocifissione. Orsini nel conclave tenuto per eleggere il successore di Celestino V, subito dopo le dimissioni di questi, venne eletto al soglio pontificio, ma rifiutò - egli sì - la carica, spianando la strada a quel Bonifacio VIII, che tra l'altro fece poi imprigionare Pietro da Morrone, il suo predecessore, e - secondo alcune recenti acquisizioni - addirittura lo tolse di mezzo facendolo uccidere nella rocca di Fumone, in Ciociaria.
Vedere in quell'ombra Celestino V, di cui Dante non fornisce il nome, lui abituato a specificare i destinatari del suo giudizio, è stata un'ignominia bella e buona, che ha retto per secoli, ma che oggi va corretta, dicono i "difensori" di Celestino. Se in questo caso Dante non lo esplicitò, forse fu per... cautela; e ciò irrobustirebbe la tesi del riferimento al cardinale Orsini, ancora in vita quando Dante finì di scrivere il suo Poema e quindi in grado di vendicarsi.
Assolutamente l'Alighieri non pensava comunque a Celestino V, insistono i difensori di questi, che in una recente giornata di studi dedicata a Pietro da Morrone hanno parlato addirittura di «simpatia e ammirazione» di Dante per il religioso, la cui "avventura di un povero cristiano" (secondo Ignazio Silone) sarà il tema del prossimo film di Nanni Moretti.
Tra l'altro Dante era lieto di condividere con l'eremita la predilezione per la dottrina del «calavrese abate Gioacchino (da Fiore, ndr) di spirito profetico dotato». Non solo, è stato evidenziato: un profondo conoscitore della materia, il professor Angelo Chiaretti, in un libro edito da Media Med, addirittura attribuisce al sommo poeta italiano l'iniziativa che lanciò Pietro da Morrone verso la Cattedra di Pietro: proprio Dante avrebbe "segnalato" al cugino Latino Malabranca de' Frangipani, componente del Sacro Collegio, l'opportunità di eleggere Papa quel frate, umile e restìo, dedito alla preghiera e alla meditazione tra i boschi dell'Abruzzo e del Molise. La proposta andò avanti e l'Angelerio divenne capo supremo della Chiesa, ma rinunciò dopo soli quattro mesi, consegnandosi così alla Storia.

© Copyright Gazzetta del sud, 22 agosto 2010

1 commento:

Elio ha detto...

La tesi non è certo della Burani ma di alcuni commentatori di Dante del XIV se.
L'ipotesi che sia Celestino V è suffragata proprio da un commento di Pietro Alighieri,figlio di Dante.
Mettetevi il cuore in pace...