martedì 3 agosto 2010
La fede non può fare a meno della ragione. Abramo e i filosofi (Inos Biffi)
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La fede non può fare a meno della ragione
Abramo e i filosofi
di Inos Biffi
Non di rado si sente da parte di teologi o di pensatori "spirituali" esaltare il "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe" (Esodo, 4, 5; Matteo, 22, 32), conosciuto nel suo rivelarsi mediante la storia della salvezza, e invece considerare con sospetto e indifferenza il "Dio dei filosofi", conosciuto attraverso l'esercizio della ragione.
Spesso, anzi, si dubita che il riconoscimento dell'esistenza di Dio possa essere un traguardo della ragione; e, in ogni caso, il Dio così raggiunto per tale via, sarebbe un Dio freddo e anonimo, imprigionato nei concetti; insomma, un "Motore immobile", senza affetto e cura per l'uomo, che, a sua volta, non potrebbe realmente amarlo ed entrare in una viva relazione con lui.
Si tratta di solito dei medesimi teologi che, convinti e almeno in certa misura conniventi dell'attuale crisi della metafisica, com'è chiamata, sono scettici o indifferenti rispetto all'affermazione del Vaticano i, là dove si dichiara che "Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza dalla luce della ragione umana, a partire dalle realtà create" (Costituzione Dei Filius, 2).
Certamente, non si può mettere in dubbio la diversità incomparabile tra la conoscenza del "Dio di Abramo", rivelato dalla "narrazione" di Gesù Cristo, suo Figlio, in particolare nel mistero della sua morte e risurrezione, e la conoscenza di Dio raggiunta dall'itinerario della ragione.
La prima è l'esito della condiscendenza di Dio, che manifesta per grazia il suo intimo e inarrivabile mistero. La seconda è raggiunta con l'itinerario della mente umana che arriva a Dio per via di una rigorosa analisi critica dell'esperienza degli enti, che non hanno in sé il fondamento del loro esserci, ma rimandano alla sublimis veritas - come dice san Tommaso - di un Essere in cui essenza ed esistenza coincidono.
Il teologo non rimuove e non abroga mai la radicale struttura "teologica" della ragione, né pone in alternativa, e meno ancora in contraddizione, il Dio dei filosofi e il "Dio di Abramo". La ragione non si aggiunge dall'esterno al disegno salvifico di Dio. Essa, infatti, è inclusa nel soprannaturale, essendo stata creata per mezzo di Cristo, in lui e in vista di lui e, come tutto l'uomo, risanata dalla redenzione. Di più: proprio per l'intima capacità della ragione di giungere a una prima e fondamentale immagine di Dio, può avere un primo senso lo stesso linguaggio teologico della Rivelazione.
Abbiamo detto del "Motore immobile": questo viene normalmente frainteso e disdegnato. In realtà il "Motore immobile" predica l'esistenza di un Essere, Atto puro, che possiede ogni perfezione. Immobilità non significa affatto fredda indifferenza, così come "Motore" non equivale a una anonima meccanicità.
Il senso è tutt'altro: si vuol affermare che non siamo più di fronte agli enti imperfetti, frammentari ed effimeri della nostra esperienza, ma a un Essere, sottratto a qualsiasi inquietudine e mutamento, che sta all'origine di ogni perfezione. Un Essere in grado di creare, cioè di "dare l'essere" mentre negli enti "non ci può essere nulla che non provenga da Dio, che è la causa universale dell'essere nella sua totalità" (Summa Theologiae i, 45, 2 c).
Se si nega la possibilità "teologica" della ragione, questa stessa si trova su un "sentiero interrotto": alla fine a trovarsi bloccata, per poi risultare inevitabilmente e completamente negata, è la ragione medesima. Una ragione atea equivale, alla fine, a una non-ragione.
Nella Summa contra Gentiles (i, 4) Tommaso afferma: "Quasi tutta la riflessione filosofica ha come termine la conoscenza di Dio ". Certo, non vi si può arrivare, se non "con l'impegno di uno studio laborioso", "che pochi vogliono affrontare per amore della scienza".
Per altro, la filosofia di san Tommaso scorre tutta tra questi due poli: da un lato, la persona umana, che è il desiderio supremo dell'universo, senza la quale esso sarebbe insignificante e, dall'altro, Dio, "sommo fastigio della ricerca umana", che libera l'uomo dalla sua invivibile solitudine e impossibile speranza.
Non si esaltano, quindi, la teologia e la sua originalità deprimendo la ragione e particolarmente quella "teologica". Alla base di questa persuasione, è una concezione "depressa" della ragione stessa, e si dimentica che, in una cultura in cui l'intelletto sia disanimato, anche la teologia si trova fatalmente vacillante, affidata alle volubilità dell'affetto e agli affanni del desiderio, che, senza l'intelletto che ne illumini l'oggetto, non possono essere riscattate dall'arbitrio.
Lo dimostra la storia stessa della teologia, e sintomaticamente quel filone che, nella sua forma completamente deviata, ha prodotto l'eresia della Riforma, dove la fede è intesa come l'antitesi della ragione.
In realtà, a ben vedere, il segno della completa sanità della ragione è la sua possibilità di giungere ad affermare Dio sulle tracce delle creature e nella forma dell'analogia.
Ma è il caso di aggiungere, da un lato, che bisogna riacquistare il valore imprescindibile dei concetti e delle definizioni, senza di cui ogni pensiero e ogni discorso si sfascia e si scioglie nella con-fusione, e nulla più si tiene insieme.
C'è chi aborrisce i concetti aridi. Veramente, un concetto non è arido né umido, né grasso né magro: è semplicemente la via imprescindibile e mirabile con cui l'uomo comprende e comunica, per quel che può, ben sapendo che nessuna "realtà" è esauribile dall'intelletto, e specialmente la realtà di Dio, che nessuna definizione sarà mai in grado di comprendere, se non per analogia.
Dall'altro lato va quindi sottolineata la convinzione di san Tommaso secondo il quale, in accordo col Damasceno (De fide orthodoxa, i, 4), "noi di Dio non possiamo sapere ciò che è, ma solo ciò che non è" (Summa Theologiae, i, 2, 2, ob. 2); e infatti "al termine della nostra conoscenza noi conosciamo Dio come il non-conosciuto, dal momento che la mente raggiunge il vertice della sua conoscenza di Dio, quando arriva ad avvertire che la sua essenza sta al di sopra di tutto quello che è in grado di conoscere lungo il cammino di questa vita; resta così ignota la sua essenza, e tuttavia si sa che egli esiste" (In Librum Boethii de Trinitate, i, 1, 2, 1m).
Quindi nessuna pretenziosità del concetto a "imprigionare" Dio in categorie umane. Del resto, qualsiasi genere di realtà "oltrepassa" sempre i confini della sua definizione. I teologi che deplorano i concetti freddi e aridi e aborriscono le definizioni, si compiacciono di richiamare che Dio è amore ed è bellezza, e quindi, liberi dal disturbo dei concetti, possono coltivare il dialogo col pensiero non credente.
Certamente, Dio è amore, che tocca la facoltà del bonum ed è bellezza, che attiva la facoltà del pulchrum. Ma per essere percepito come amore e come bellezza bisogna che Dio sia colto nel suo "essere" ed esserci, e quindi appaia nella sua obiettiva verità capace di riscattare dall'arbitrio.
Solo allora può rivelarsi la prerogativa di Dio di essere originariamente amore e bellezza: amore, in cui si risolve tutto il Bonum e che può divenire termine di desiderio; bellezza, in cui si risolve tutto il Pulchrum e che può divenire oggetto di ammirazione. Ed è il caso di osservare che, se soltanto "il Dio di Abramo" rivela la storia concreta e compiuta di questo amore e di questa bellezza, anche il Dio dei filosofi è un Dio al quale essenzialmente appartengono queste sue prerogative.
Ma torniamo al sospetto "teologico" sui concetti, per rilevarne la superficialità e la connivenza con la diffusa e confusa cultura povera, dove è messa in dubbio l'innata capacità dell'intelletto umano di percepire l'essere e le implicazioni necessariamente in esso incluse, ossia i primi principi, l'applicazione dei quali è semplicemente la condizione di ogni pensiero e di ogni ragionamento.
Ciò che distingue l'uomo, e ne segna il carattere e la proprietà specifica, è esattamente questa sua facoltà di essere cosciente dell'"essere", di avvertire l'assoluta differenza tra essere e non essere, di stupirsi dell'essere stesso, di riconoscerne il mistero ineffabile. L'essere non è creato dall'uomo: né dal suo pensiero né dal suo affetto; l'uomo se lo ritrova "innanzi", avendo anzitutto coscienza del proprio essere.
Non è fuori luogo, a questo punto, rilevare quanto i "freddi" concetti nei primi concili, in epoca patristica, ben precedente l'influsso aristotelico e il fiorire della scolastica, abbiano efficacemente contribuito all'esposizione ortodossa della fede cattolica.
Si tratta di un linguaggio irrinunciabile, anche se può essere arricchito al fine di rilevare altri aspetti del mistero cristiano. Ma con un'attenzione: quella di non concepire Dio a immagine dell'uomo, ma l'uomo a immagine di Dio. Come, invece, sembrano fare quanti, per esempio, ritengono che, per avere una Trinità che sia amore, occorre usare un linguaggio moderno e caldo e, per non rassegnarsi a un Dio "impassibile", ma veramente misericordioso, si debba ammettere in lui una sofferenza, fatalmente interpretata a partire da come noi esperimentiamo l'amore nella forma della sofferenza.
Al riguardo non è difficile accorgersi di quale sia la patria di queste teorie. Siamo sempre nel contesto di una cultura largamente segnata dall'"ontofobia", o "paura dell'essere" e, alla fine, dell'"intelligenza", da cui un linguaggio emotivo e spumeggiante, che sembra più ricco di quello concettuale nel senso che è frondoso e sonoro. Per non dire della confusione che si viene creando parlando dell'essere che "accade": in realtà l'essere non "accade", ha una sua origine e giustificazione "teologica" nel libero atto creativo di Dio.
Un ultimo rilievo. Per ricordare l'affermazione, crederei poco nota, di san Tommaso, a proposito del compimento dell'adesione intellettiva dell'uomo a Dio in adesione di amore: "Nell'uomo due sono i mezzi con cui si può aderire a Dio, cioè l'intelletto e la volontà (...) Ma l'adesione dell'intelletto si compie con l'adesione della volontà, poiché è mediante la volontà che l'uomo in certo modo si acquieta in ciò che l'intelletto apprende (... ) Alla cosa a cui aderisce per amore, aderisce per se stessa (...) L'adesione a Dio per amore è il modo principale per aderire a lui" (Summa contra Gentiles, iii, 116).
Come s'è visto, il tema del "Dio dei filosofi" e del "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe" domanda di essere affrontato con rigore critico, senza lasciarsi prendere da facili e immediate emozioni, che snobbano o sottovalutano il percorso teologico della ragione, nella convinzione che il Dio della Rivelazione lo renda superfluo e insignificante, se pure non dannoso. Se si ritiene la ragione dell'uomo incapace di pensare realmente Dio come pienezza di essere e di perfezione, come Creatore e fonte di ogni essere, neppure sarebbe possibile una sensata accoglienza del "Dio di Abramo", che è la Trinità Santissima, ma non è un "altro Dio", e che si è manifestato nella storia della salvezza, con l'incarnazione, la passione e la risurrezione di Gesù Cristo, dov'è offerta un'immagine divina insospettabile e assolutamente inattingibile alla ragione dell'uomo, ma solo disponibile per grazia alla sua fede.
(©L'Osservatore Romano - 2-3 agosto 2010)
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