martedì 2 marzo 2010
La gratitudine dei cristiani iracheni dopo l'esortazione di Benedetto XVI. Interviste con mons. Philip Najim e don Renato Sacco (Radio Vaticana)
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La gratitudine dei cristiani iracheni dopo l'esortazione di Benedetto XVI. Interviste con mons. Philip Najim e don Renato Sacco
Nell’Iraq che si prepara all’appuntamento con la democrazia, rappresentato dalle ormai imminenti lezioni di domenica prossima, continua a suscitare eco l’appello che Benedetto XVI ha levato domenica scorsa all’Angelus in favore dei cristiani del Paese. Quella frase del Papa – “non stancatevi di essere fermento di bene per la patria a cui da secoli appartenete a pieno titolo” – ha riempito il cuore dei cristiani in tutto l’Iraq, dando slancio e coraggio. Lo conferma mons. Philip Najim, procuratore della Chiesa caldea presso la Santa Sede, intervistato da Fabio Colagrande:
R. – E’ un messaggio del Papa per tutti i cristiani dell’Iraq e possiamo dividerla in due parti. La prima parte sta chiamando tutti noi cristiani a dare ancora la testimonianza della nostra fede e a non stancarci mai di essere cristiani, di portare la nostra croce e vivere il Vangelo. La seconda parte ricorda a ciascuno di noi che siamo cittadini a pieno titolo e che questa è la nostra patria. Perciò, attraverso la nostra fede dobbiamo contribuire alla costruzione della nostra patria, assieme ai nostri fratelli musulmani. Noi da secoli viviamo insieme in tolleranza e in piena amicizia, siamo iracheni: dobbiamo cercare di rimanere in Iraq, dare allo Stato la nostra forza e contribuire anche alla realizzazione della sicurezza e del futuro del Paese.
D. – Domenica scorsa, in Piazza San Pietro, c’era uno striscione che recitava: “Non ce la facciamo più!”: perché in questo momento questa esasperazione? Per i morti a Mossul?
R. – Davvero la popolazione è stanca di tutte queste discriminazioni e persecuzioni, siamo esseri umani. Ormai, non vediamo più una via d’uscita. Noi abbiamo la speranza che un giorno la pace possa regnare, perché veramente è un dono prezioso, oggi come oggi, poter vivere la pace, poter rinascere di nuovo e poter ricostruire un Iraq nuovo. Siamo stanchi perché ci sentiamo dimenticati anche dalla comunità internazionale, che non interviene per porre fine a queste discriminazioni e a queste persecuzioni che si compiono ogni giorno nei confronti dei cristiani e nei confronti delle minoranze in tutto il Medio Oriente.
D. – Nella manifestazione a Mossul, proprio i cristiani che hanno protestato in piazza hanno chiesto giustizia: il sangue degli innocenti grida perché siano fermati terrorismo e violenza. Eppure, le autorità locali non sembrano in grado di poter fermare questa mattanza vera e propria…
R. – La giustizia dev’essere compito dello Stato: non possiamo dare ancora sangue, non possiamo dare ancora vittime… Siamo lasciati soli e il governo deve assumersi la propria responsabilità per tutelare i diritti dei suoi cittadini.
Tra le sue tante vittime, l'Iraq ricorda sempre con affetto e piange la brutale scomparsa di mons. Faraj Rahho, l'arcivescovo di Mossul dei caldei sequestrato due anni fa e poi barbaramente ucciso. Il presule iracheno ritorna nel ricordo di don Renato Sacco, delegato di Pax Christi Italia per l'Iraq, dove si è recato in numerose occasioni. L'intervista è di Fabio Colagrande:
R. – Non si può non ricordarlo: era il 29 febbraio del 2008, io l’avevo appena incontrato qualche giorno prima, ma non a Mossul perché era impossibile entrare. A qualche mia domanda, mons. Rahho un po’ ironicamente mi ha risposto: invece di chiedere tutte queste cose, vieni anche tu a vedere, no? Pur sapendo che la cosa non era fattibile. Appena sono rientrato in Italia, è arrivata la notizia del suo rapimento, le preoccupazioni e poi la notizia della sua morte: gettato in una discarica, in un modo indegno. Sembra davvero che sia un Venerdì Santo, una Via Crucis infinita quella che sta vivendo il popolo iracheno, e in particolare ancora di più ora i cristiani. Io ho avuto modo di parlare in questi giorni anche con mons. Sako di Kirkuk che diceva: i cristiani non cercano potere, non cercano violenza, non cercano ricchezza e forse questa potrebbe essere una chiave per capire perché questo accanimento.
D. – Don Renato, visto che siamo in Quaresima, il pensiero, la riflessione sulle persecuzioni molto dure che stanno subendo questi nostri fratelli cristiani in Iraq può essere davvero anche uno spunto di preghiera in questo tempo di preparazione alla Pasqua?
R. – Io credo che dovremmo sicuramente pregare di più e la preghiera – ce lo insegna Gesù, il Maestro – è sempre poi collegata alla vita, ha sempre uno sguardo rivolto al Cielo ma ha i piedi molto per terra, per cui bisogna fare in modo che le nostre preghiere siano fatte anche sfogliando il giornale chiedendoci: chi oggi paga con il proprio sangue e la propria vita la testimonianza, la carità o scommette sul dialogo, che è ritenuto perdente? La nostra Pasqua è una Pasqua si Risurrezione, soprattutto per chi vive oggi il Calvario. L’Iraq non è un Paese anonimo: è fatto di volti, di nomi, di persone, di mani strette, di abbracci condivisi e, quindi, quando si pensa ai volti si umanizza un rapporto. Forse la Quaresima ci deve davvero convertire su questo. Lo chiediamo nella preghiera al Signore. (Montaggi a cura di Maria Brigini)
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