mercoledì 21 aprile 2010

L'evoluzione del collegio cardinalizio al tempo di Leone XIII: Una questione di cappelli e di teste giuste (Osservatore Romano)


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L'evoluzione del collegio cardinalizio al tempo di Leone XIII

Una questione di cappelli e di teste giuste

Il 20 aprile si è svolto a Roma, nella Libera Università Maria Santissima Assunta, un convegno su "Le élites cattoliche nell'Europa liberale" inserito nell'ambito di un progetto di ricerca della Società italiana per lo studio della storia contemporanea. Pubblichiamo stralci di una delle relazioni.

di Roberto Regoli

Il Sacro Collegio, cioè l'insieme dei cardinali, ha una storia molto lunga, che affonda le sue radici nel medioevo. Il loro ruolo è di essere consiglieri e collaboratori dei Papi e loro elettori in caso di conclave. Nel XIX secolo si hanno sei pontefici (Pio VII, Leone XII, Pio VIII, Gregorio XVI, Pio IX e Leone XIII), che creano 475 cardinali in 106 concistori. Dopo il 1870 Pio IX crea 42 cardinali - circa un terzo abbondante dei 123 cardinali creati durante il suo lungo pontificato - e Leone XIII tocca la quota di 147 nuovi cardinali. Qui si prende specificatamente in considerazione il periodo del pontificato leonino, che va dal 1878 al 1903, perché è solo con questo nuovo pontificato che si cominciano ad affrontare le vere problematiche seguite alla perdita del potere temporale della Santa Sede, cioè alla fine dello Stato Pontificio tra il 1860 e il 1870.
A seguito del 1870, cambia non solo il papato, ma anche il cardinalato. Scompaiono alcune figure tradizionali. Non vi sono più i cardinali legati del territorio pontificio, come Agostino Rivarola, diminuiscono i cardinali delle corone, scompaiono i cardinali non ordinati preti, come Teodolfo Mertel, in quanto avviene una clericalizzazione del cardinalato, è il tempo dei professori cardinali (John H. Newman, Luigi Maria Bilio e Camillo Tarquini) e la presenza dei cardinali pastori è più significativa.
Durante il pontificato di Pio IX era avvenuto un allargamento del Sacro Collegio verso il continente americano con la nomina del primo cardinale nato in America centrale, esattamente in Guatemala, Ignacio Juan de la Cruz Moreno (1868), e del primo cardinale statunitense, John McCloskey (1875).
Sotto il pontificato di Leone XIII si è testimoni dell'importanza crescente della Chiesa dell'impero britannico, con la nomina del primo cardinale australiano, Patrick Francis Moran (1885), e del primo canadese, Elzéar Alexandre Taschereau (1886). Guardando alla ripartizione geografica dei cardinali, si constata che il 57 per cento è di origine italiana - e più della metà di questo gruppo proviene dal territorio che precedentemente includeva lo Stato Pontificio - mentre il rimanente 43 per cento è costituito da membri provenienti da altre nazioni.
Se si considera l'insieme del XIX secolo, si nota una continua internazionalizzazione del Sacro Collegio: durante il pontificato di Pio VII gli italiani nominati costituiscono il 75 per cento del totale, durante il pontificato di Leone xii scendono al 60 per cento, con Pio VIII ricoprono il 67 per cento, con Gregorio XVI salgono addirittura all'88 per cento. Dunque, con Leone XIII si ha un assestamento dell'apertura del Sacro Collegio, che da allora in poi sarà sempre meno italiano e sempre più internazionale, sebbene la proporzione dei cardinali non europei non progredisca di molto. Ancora sotto il pontificato leonino gli italiani, gli spagnoli e i francesi costituiscono la maggioranza delle nomine. L'internazionalizzazione del Sacro Collegio è attribuibile all'espansione della Chiesa nelle terre considerate di missione, alla ricerca dell'appoggio internazionale dinanzi alla riduzione e poi perdita del potere temporale della Sede romana, alla nuova impostazione di una Chiesa più pastorale e meno di corte e alla politica ecclesiastica di Leone XIII, che tende a puntare all'allargamento dell'autorità morale della Santa Sede.
L'internazionalizzazione, però, è da comprendere in maniera corretta. Il cardinalato soprannazionale va inteso in relazione all'attaccamento intellettuale e affettivo alla Santa Sede da parte del candidato alla porpora, al più noto "spirito romano", cioè a quella maniera di giudicare ogni cosa secondo un punto di vista internazionale, soprannazionale, dunque propriamente cattolico. Alla fine del XIX secolo, Émile Zola scriveva in modo avveduto: "Il Sacro Collegio (...) si è internazionalizzato (...) e ha finito di essere ai nostri giorni la più universale delle nostre assemblee, nella quale siedono i membri di tutte le nazioni".
Se si guarda all'origine sociale dei cardinali, si nota una evoluzione evidente lungo il XIX secolo. Sotto il pontificato di Pio VII, la stragrande maggioranza dei porporati nominati proviene dalla nobiltà (92 per cento), con evidenti differenziazioni interne - un conto è essere un Borbone o un Asburgo, un conto è provenire dalla piccola nobiltà, come un Giuseppe Spina, o dalla nobiltà parlamentare, come un Jean de Dieu-Raymond de Boisgelin de Cucé - mentre solo una piccola parte proviene dalla borghesia (7 per cento) e un solo cardinale (Michelangelo Luchi) ha origini modeste (1 per cento). Sotto il pontificato di Leone XIII il 26 per cento dei cardinali promossi proviene dalla nobiltà, il 33 per cento dalla borghesia, il 21 per cento da ambienti modesti e il rimanente 20 per cento non è stato identificato. Le nomine cardinalizie sono soggette alla stessa evoluzione dei tempi: l'ascesa politica della borghesia è seguita dall'ascesa cardinalizia della stessa classe sociale. Nella seconda metà del XIX secolo si ha un rinnovamento sociale della classe dirigente ecclesiale. Il pontificato di Pio IX prima e quello di Leone XIII dopo non fanno che assecondare questa tendenza, non potendosi ancora parlare di incoraggiamento. Infatti, la prevalenza dell'elemento borghese e degli uomini provenienti da ambienti più modesti è più significativa a livello di chiese locali che di centro romano, là dove la carriera curiale è ancora largamente riservata a persone provenienti dagli ambienti di potere sociale più tradizionali. In tal senso si nota un medesimo milieu di provenienza della classe dirigente laica ed ecclesiastica.
Secondo Luciano Trincia la provenienza sociale dei cardinali determina l'esistenza di diversi raggruppamenti cardinalizi interni alla Curia, cioè la differenziazione interna al Collegio cardinalizio è legata "all'origine sociale dei porporati di Leone XIII", in quanto, nell'ultimo quarto del XIX secolo ricoprono cariche rilevanti di Curia non solo aristocratici, ma anche borghesi e contadini. I primi tre segretari di Stato di Leone XIII (Alessandro Franchi, Lorenzo Nina e Ludovico Jacobini) sono borghesi, mentre il quarto (Mariano Rampolla del Tindaro) è nobile. Aumenta tra i membri delle congregazioni vaticane l'incidenza della classe borghese e di quella più modesta, non "senza tensioni o scosse d'aggiustamento".
Un altro cambiamento significativo riguarda una questione prettamente canonistica. Fino al periodo preso in considerazione, un uomo può accedere al cardinalato con gli ordini minori, sebbene in pratica sia sempre più richiesta l'assunzione dell'ordine sacro del diaconato. È nota, ad esempio, la vicenda del cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato di Pio VII, che solo dietro insistenza del Papa si fece ordinare diacono dopo alcuni mesi dall'assunzione della porpora. Così per il XIX secolo, occorre di fatto essere almeno diaconi per divenire cardinali, ma non solo. Infatti, lungo il secolo si è testimoni di una clericalizzazione del cardinalato, per cui il neo porporato deve essere almeno sacerdote. Gli ultimi cardinali semplicemente diaconi, cioè senza ordinazione presbiterale o episcopale, sono Giacomo Antonelli, segretario di Stato di Pio IX, Teodolfo Mertel, collaboratore di Pio IX e Leone XIII, e Carlo Cristofori, che riceve il diaconato sei mesi dopo il cardinalato, come ultimo cardinale non prete creato in epoca contemporanea. Tale prassi diviene normativa nel Codice di Diritto Canonico del 1917, che nel canone 232, afferma che i cardinali devono essere saltem in ordine presbyteratus constituti.
La diminuzione del numero e poi la scomparsa dei cardinali non preti è indubbiamente da legare alla caduta del potere temporale della Santa Sede, con la relativa scomparsa di numerosi ruoli amministrativi - legazioni, delegazioni, amministrazione del territorio, giustizia amministrativa e così via.
La clericalizzazione o sacralizzazione delle funzioni cardinalizie è accompagnata allo stesso tempo da una formazione della classe dirigente ecclesiale sempre più separata da quella laica. Se il milieu sociale di appartenenza delle classi dirigenti dell'epoca è per lo più identico (simile ambiente familiare, stessa mentalità, stessa frequentazione di ambienti - i famosi salotti - e simile cultura di base), nel corso del XIX secolo si ha una scissione della proposta educativa legata all'istruzione: la Chiesa e lo Stato hanno ormai le loro scuole di specializzazione distinte, non si è più in presenza dei collegi o dei seminari-collegi che preparavano allo stesso tempo la futura classe dirigente tanto ecclesiastica quanto statale. Così, ad esempio, tra i cardinali italiani nominati dopo il 1878, la maggior parte ha compiuto i propri studi a Roma, presso il Collegio Clementino, l'Almo Collegio Capranica, il Seminario Romano, il Collegio Romano e l'Accademia dei Nobili Ecclesiastici.
Tale discorso legato all'ambito dell'istruzione riguarda prettamente l'Italia e secondariamente l'Europa, in cui la separazione della formazione delle classi dirigenti avviene cronologicamente in tempi diversi.
A livello di istruzione, i cardinali italiani di fine Ottocento hanno formalmente una formazione intellettuale superiore rispetto ai periodi precedenti, in quanto oltre ai dottorati in utroque iure è attestata la presenza di dottorati in teologia, senza considerare i detentori di due o tre dottorati. Anche presso i cardinali di altri Paesi si nota un'evoluzione significativa, poiché gli studi sono più diversificati e in più sono compiuti presso istituzioni di tradizione differente - si pensi al caso singolare di Newman, con la sua formazione a Oxford. In generale, a livello di studi previi, prevale la formazione giuridica, sebbene nel tempo avvenga una riduzione, in quanto sotto Pio VII i cardinali dottori in utroque iure erano il 50 per cento del totale, mentre sotto Leone XIII raggiungono il solo 36 per cento. Tra i cardinali non italiani prevale la formazione teologica. In relazione ai cardinali di Curia, vi è un passaggio di studi significativo: il triplo dottorato in teologia, filosofia e utroque iure, che costituisce un canale privilegiato d'accesso agli uffici della Santa Sede.
Tanto tra i cardinali italiani che tra quelli degli altri Paesi, prevale numericamente il percorso della docenza, mentre il servizio curiale è ad appannaggio degli italiani (20 rispetto al solo polacco Wlodzimierz Czacki). Una buona parte degli "stranieri", rispetto a un esiguo gruppo di italiani, ha nel suo curriculum vitae il servizio pastorale.
Nel corso degli anni Ottanta del XIX secolo, è stato imposto all'interno del ceto dirigente ecclesiastico un processo di rinnovamento, "di ricambio profondo, parallelo, per certi versi al ricambio di classe dirigente verificatosi, sul piano politico e amministrativo, nello Stato liberale". In particolare la Santa Sede "avrebbe adottato una "linea d'azione organica" che, nella situazione italiana, implicava, da un lato, l'emarginazione di coloro che erano in qualche modo legati alla tradizione risorgimentale e, dall'altro, l'impulso a modellare un nuovo tipo di "quadri" ecclesiastici fedeli alle direttive degli organi centrali della Chiesa. Tale rinnovamento tocca i quadri della prelatura, dei docenti dei seminari e della diplomazia: da questi ambienti provengono i futuri cardinali. Un processo parallelo di formazione di un nuovo ceto dell'amministrazione superiore avviene in Germania tra il 1866 e il 1883.
Questa impostazione trova espressione nelle promozioni cardinalizie del periodo, che nella loro irregolarità ricordano che "la Curia romana non è un organismo rappresentativo, ma lo strumento di governo del papa", pertanto le promozioni alla porpora sono viste in un'ottica di appoggio agli orientamenti e alla politica del pontificato.
Il Papa regnante deve provvedere, durante il suo pontificato, al rinfoltimento del gruppo dei porporati, ma non sempre l'operazione da compiere è facile; Pasquino sa descrivere sagacemente la situazione: "La difficoltà non sta in der fabbricà i cappelli, ma in der trovà le teste de appiccicajieli".
L'accesso al cardinalato dipende dalla volontà del Papa, che in concistoro crea i nuovi cardinali. Si possono individuare dei percorsi tipici: un cursus honorum nella Curia romana (carriera curiale e diplomatica), l'occupazione di una sede episcopale significativa e la presentazione da parte di un sovrano o di un Governo di un Paese cattolico: si tratta dei più noti "cardinali delle corone" o "cardinali nazionali", così come furono definiti secondo lo spirito nazionalistico del XIX secolo. Quest'ultima possibilità scema nel tempo, per poi scomparire in epoca contemporanea. Di essa si avvalgono i rappresentanti degli Stati cattolici europei per sollecitare un aumento dei propri cardinali all'interno del Sacro Collegio. Alcuni seggi episcopali conducono tradizionalmente alla porpora il loro titolare. Si tratta per lo più, ma non sempre, di grandi capitali e di sedi illustri.
Su 147 cardinali creati da Leone XIII, 82 sono vescovi residenziali, di cui 25 italiani e 57 di altri Paesi. In media essi ricoprono in vita circa il 50 per cento dei posti cardinalizi disponibili. Considerando che i "non italiani" complessivamente sono in totale 63, si evince che per questi l'accesso al cardinalato è legato quasi esclusivamente all'occupazione di alcune sedi episcopali. Per tali personaggi il cardinalato è limitato a un titolo più che altro onorifico, in quanto non svolgono un reale e significativo ruolo di collaborazione con il Papa. Il loro apporto diviene incisivo in caso di conclave, grazie all'elettorato attivo e passivo. Infatti, durante il pontificato, non appartenendo alla Curia romana, non entrano nemmeno nelle dinamiche decisionali del centro romano. Lo stesso può dirsi per quei 25 cardinali italiani sugli 84 nominati. Se 82 cardinali sono vescovi residenziali, altri 38 (un polacco e 37 italiani) sono vescovi titolari (di cui 21 diplomatici, 11 segretari di dicastero, 4 prelati della Casa pontificia e un vescovo missionario, Guglielmo Massaia) e 27 sono cardinali non vescovi, di cui 22 italiani (12 sono della Curia, 8 segretari di dicastero e 2 docenti) e 5 "stranieri".
Alcune cariche curiali sono l'anticamera del collegio cardinalizio. Vi era una prassi consolidata, ma non scritta, per cui la promozione al cardinalato a fine carriera dei principali funzionari di Curia era quasi automatica. Per tale motivo, le reali scelte papali erano assai limitate nel mondo curiale, come pure nelle nomine dei cardinali residenziali - condizionate dai sovrani o dal potere governativo - mentre erano più libere per i cardinali privi di uffici, in quest'ultimo caso si può parlare di libertà e responsabilità del Papa e di carattere veramente intuitu personae dell'accessione al cardinalato.
L'appartenenza al Sacro Collegio non è un punto di non ritorno, in quanto si può essere anche esclusi da questo Collegio, come pure venirne allontanati momentaneamente. Per il pontificato di Leone XIII si pensi al cardinale Jean-Baptiste-François Pitra, che viene escluso dal Collegio in quanto aveva preso una posizione apertamente ostile alle iniziative pontificie.
Del Collegio cardinalizio interessa considerare quei membri, che, per il loro ruolo, riescono a influire nei processi decisionali della Chiesa. Si tratta ovviamente di quei cardinali che risiedono a Roma, che sono membri delle diverse congregazioni e tribunali della Curia romana, divenendone a volte prefetti o segretari. Infatti, le decisioni di questi organismi hanno una ricaduta sull'intera compagine ecclesiale internazionale. I cardinali curiali sono i primi collaboratori del Papa, essi formano una classe residuale di cardinali.
Secondo Claude Prudhomme esiste una logica di promozione nelle élites della Chiesa cattolica che trascende gli itinerari individuali e privilegia dei percorsi tipici. Si ha a che fare con le carriere "romane" che passano per una formazione iniziale - diplomi e lauree universitarie -, l'assunzione di un dato impiego e il successivo avanzamento nella carriera diplomatica o curiale. Prudhomme insiste sulla similitudine con le carriere civili. Il reclutamento e la continuazione della carriera si basano sul gioco delle protezioni e secondo la legge della cooptazione: il giovane che inizia la sua carriera si trova "in un microcosmo dove bisogna essere conosciuti, dunque visti in alcuni dati luoghi, sollecitare appoggi per essere sponsorizzati, orientarsi ed essere orientati".
Alcuni cardinali provengono dalla carriera diplomatica, che non prevede un percorso formale per accedervi, anzi essendo assai personalizzati gli accessi alle sue funzioni, almeno fino all'anno 1889, quando viene emesso un regolamento che istituisce un concorso per l'accesso alle funzioni del servizio diplomatico. Jean-Marc Ticchi nel suo studio storiografico fa notare che il processo di selezione degli aspiranti al servizio diplomatico della Santa Sede è della stessa natura di quello istituito dagli Stati europei. Notiamo una stessa modalità di selezione della élite diplomatica tanto laica quanto ecclesiastica. Innanzitutto, "una prima selezione è operata fra gli stessi aspiranti, secondo un criterio sociale: i testi riaffermano il principio di un reclutamento di giovani nobili o di buona famiglia che già ispirava le disposizioni relative alle scelte dei membri della prelatura romana". Tale appartenenza viene giustificata, in un articolo apparso in Italia e probabilmente ispirato dalla Segreteria di Stato, dal fatto "che l'umiltà della parentela, la quale certamente non è di nessun disdoro, ma crea talora fastidiosi impacci a chi, come i nunzi, è posto sul candelabro e in vista di tutti". Questa preoccupazione è condivisa anche dagli altri servizi diplomatici europei, tra cui quello della Francia, unica repubblica del vecchio continente. I prelati diplomatici appartengono a "una specie di multinazionale composta da cugini e amici di studi, di viaggio o di vacanze"; si appartiene al medesimo milieu. C'è però una specificità rispetto agli altri diplomatici: ai prelati pontifici vengono richiesti altri obblighi, quali la ricezione degli ordini sacri, una "specchiata condotta ecclesiastica", un "provato attaccamento alla Santa Sede", una laurea in diritto canonico e, se possibile, la conoscenza di più lingue straniere. Quel che conta, però, è che al "Vaticano come nelle altre cancellerie, si considera dunque che i legami di famiglia sono necessari all'attività professionale non meno che alla vita sociale e mondana delle capitali dell'Europa monarchica".
Il regolamento pontificio del 1889, entrato in vigore nel 1890, è rivelativo di una prassi già esistente, che reclutava i suoi uomini in un determinato ambiente sociale e con alcune caratteristiche intellettuali e morali.

(©L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010)

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