sabato 24 luglio 2010

Iannuzzi sulla nota del Vicariato: la coerenza cristiana è affermare la verità di ciò che si è incontrato e attenersi alla forma vocazionale scelta


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O casti o fuori

La Curia dopo l'inchiesta sui preti gay di Panorama. Nei Seminari tutto si studia tranne la sessualità. Non solo peccatori, i sacerdoti omosessuali, sono deviati sul piano dell'ortodossia.

Raffaele Iannuzzi

È raro da parte di un cattolico laico fino al midollo come chi scrive e che, di conseguenza, non ama il clericalismo né la logica curiale in ogni suo aspetto, darle ragione, ma stavolta la Curia di Roma ha colto nel segno: l’articolo dall’eloquente titolo Le notti brave dei preti gay uscito su Panorama a qualcuno può non piacere e far dire che è puro scandalismo, ma per noi contra factum non valet argumentum, e infatti la stessa Curia ha esplicitato il giudizio di merito in maniera altrettanto impeccabile: «I preti gay vengano allo scoperto». E qui occorre fare qualche breve commento.
Primo: gli alfieri del politicamente corretto di ogni razza e genìa non si scaldino, trattasi di dottrina e buon senso, non di discriminazione. Già, perché qui non si mette in questione il prete omosessuale come tale, cioè chi, divenuto prete e già in seminario, ha preferenze sessuali omosessuali. Questo non ha mai fatto problema nella Chiesa, contrariamente a quanto i bigotti laicisti e radicali da mezzo secolo vanno urlando.
Il punto è un altro: chi è prete e omosessuale è pregato di fare come gli altri preti eterosessuali, astenersi da ogni rapporto sessuale. Praticare rigorosamente la castità, segno di unione mistica e carismatica, nel caso del sacerdozio, con Cristo.
Punto e a capo. Lo segnala anche il Codice di Diritto Canonico, ma prima ancora un esercito di santi, Padri della Chiesa, Vescovi, grandi preti testimoni della fede.
La coerenza non è un atteggiamento etico da Salvemini con la tonaca, una specie di etica rafforzata e imbustata nel clergyman. No, la coerenza cristiana è affermare la verità di ciò che si è incontrato e attenersi alla forma vocazionale scelta, dopo aver seguito una chiamata divina. Si tratta di Cristo e non di moralismo. Ma c’è un altro punto da richiamare: la sessualità. Il grande magistero di Giovanni Paolo II sul corpo e la sessualità è stato in larga misura dimenticato e ciò è un male. In quelle fatiche magisteriali c’è un punto che non è di piccolo momento: la sessualità è una cosa, la genitalità è un’altra. La sessualità definisce e determina chi sono e come mi pongo nel mondo in quanto essere, persona singola appartenente a un genere ben preciso, quello maschile. È un fatto ontologico, per dirla con la teologia. La genitalità è l’esercizio delle funzioni legate al mio genere sessuale, alla sessualità, e comporta sempre la zona d’ombra del peccato, se sganciato dalla vocazione specifica e dalla grazia di Dio.
Ecco, questa dottrina, limpida e rigorosa, è assente da molti seminari e da molte scuole di formazione cattoliche. Si parla di altro: di sociale, politica, welfare, terzo settore, ma non di uomo e donna, rapporto io-tu, sessualità ordinata e morale sessuale. Rimane ancora la "sindrome Humanae vitae" in qualche misura e questi sono i risultati.
I preti omosessuali non solo sono peccatori, ma prima ancora sono deviati sul piano dell’ortodossia e della scienza della fede. Di conseguenza, come ha sempre ammonito Benedetto XVI, la loro prassi è peccaminosa. Perché dall’ortodossia – il retto pensiero – deriva l’ortoprassi – la retta azione. Come diceva Pascal: «Pensare bene, per agire bene». Io rettificherei così: «Pensare bene, per agire… meglio». E meglio di così, non è difficile, mi pare. Dunque, dobbiamo mettere la scure alla radice. A costo di apparire petulanti: quello che sta facendo Benedetto XVI. E la Curia.

© Copyright Il Tempo, 24 luglio 2010 consultabile online anche qui.

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