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Lo scenario culturale del Paese affascinato da Benedetto xvi
Non è un caso che Newman fosse inglese
di Alain Besançon
Il viaggio del Papa in Gran Bretagna ha avuto più successo di quanto ci si aspettasse. Da mesi la stampa inglese e quella americana (l'«Herald Tribune», il «Financial Times», il «Times Literary Supplement»), stavano conducendo una sorta di campagna contro «il vescovo di Roma», rimproverandogli di tutto e di più. Si poteva temere il peggio. Ebbene, le autorità civili lo hanno accolto con deferenza e le autorità religiose anglicane con simpatia, le folle cattoliche erano presenti e hanno partecipato con fervore alle celebrazioni di Benedetto xvi.
Occorre tuttavia interrogarsi su ciò che ha di particolare la reticenza inglese, che è molto diversa dall'anticlericalismo francese, italiano o spagnolo. Essa ha origine in due tradizioni diverse, l'una politica, l'altra intellettuale.
La riforma in Inghilterra non è stata come in Germania o in Svizzera un movimento spontaneo nato dal basso, generato da un monaco come Lutero o da un prete come Zwingli. In questo regno fortemente organizzato, lo Stato è stato subito un attore principale. La Chiesa inglese era stata per lungo tempo particolarmente sottomessa alla sede romana. Se ne distaccò progressivamente nel corso del xv secolo, ma è il re Tudor, ancora più assoluto a quell'epoca del re di Francia, a decidere di rompere con Roma. Enrico viii si considerava cattolico. Come scriveva Toqueville, il dissidente fedele a Roma o luterano correva il serio rischio di essere arso sul rogo come eretico o squartato come traditore. Tommaso Moro ne fece l'esperienza. La spedizione del Pilgrimage of Grace, volta a ridurre le sacche cattoliche residue, non fece poche vittime. Ciononostante le idee riformate propriamente dette, luterane, calviniste, zwingliane, penetravano nell'università, nella borghesia e nel popolo. Edoardo vi nel suo breve regno volle imporre un calvinismo intransigente. Maria Tudor, che gli succedette, cercò con gli stessi metodi di tornare al cattolicesimo romano. Non vi riuscì e i circa 280 martiri che fece in poco tempo le valsero per i secoli a venire il soprannome di «sanguinaria». La memoria inglese dimentica i martiri quasi altrettanto numerosi della grande Elisabetta perché le riconosce il merito di essere riuscita a stabilire un compromesso solido, che dura sempre. La Chiesa stabilita conserva una struttura gerarchica episcopaliana e una parte consistente della liturgia cattolica, arricchita ulteriormente dall'arcivescovo Cranmer che la traspose in una lingua magnifica. D'altro canto essa adotta i due principi protestanti, sola scriptura (la Bibbia del Re Giacomo è un successo incomparabile) e sola gratia. Il compromesso elisabettiano deve essere considerato un'opera politica. Non si tratta di definire la verità religiosa, il che al contrario è piuttosto evitato, ma di giungere a una pace fra le fazioni avverse. Essendo stata la regina scomunicata da Roma, l'Atto di Supremazia fa di lei la custode della fede. L'Atto di Uniformità impone il Prayer Book, il libro della preghiera comune ancora in vigore oggi. L'esaltazione della nazione inglese attorno alla corona assicurò il trionfo e la perennità dell'anglicanesimo. La sconfitta dell'Invincibile Armata, la vittoria sulla Spagna, il complotto di Guy Fawkes, che voleva far saltare in aria il Parlamento, valsero per lungo tempo ai cattolici inglesi lo statuto di traditori e di fuorilegge.
Fu così saldamente stabilita la tradizione politica inglese. Questa subì nel corso dei secoli oscillazioni attorno a un punto di equilibrio sempre difficile da mantenere. Cromwell lo spostò in direzione del puritanesimo calvinista, gli Stuart in direzione del cattolicesimo. Ma quando Giacomo ii decise di proclamare la totale libertà di culto per i cattolici e per i dissidenti calvinisti, ci rimise la corona. Locke, nella sua Lettera sulla tolleranza (1689), tanto cara all'illuminismo francese, escluse espressamente i cattolici: they obey the Pope.
Ma un'altra tradizione, puramente intellettuale, confluirà nella tradizione politica per indebolirla e per rafforzarla.
È principalmente in Inghilterra che si sviluppò la critica radicale della sintesi tomista, la quale si era sforzata di far entrare nella teologia cristiana il tesoro filosofico dell'antichità. Duns Scoto critica «l'analogia dell'essere» che creava l'unità organica del cosmo e permetteva un discorso positivo e razionale su Dio. Occam prosegue questa dissociazione degli elementi del mondo, demolisce le «prove» tomiste dell'esistenza di Dio, orienta il pensiero inglese da una parte verso la logica e dall'altra verso l'empirismo sperimentale, due vie in cui eccellerà e che favoriranno lo sviluppo della scienza moderna. Locke e Newton, che si considerano cristiani, rifiutano la dottrina della Trinità. L'illuminismo inglese non ha la virulenza politica dell'illuminismo francese, perché è soddisfatto della situazione che la «gloriosa rivoluzione» del 1689 ha instaurato. Ma prosegue in grande la demolizione dell'antica metafisica. Hume la porta a termine. Gibbon da parte sua guarda all'avvento del cristianesimo come a quello della barbarie e della superstizione. Bertrand Russel nel xx secolo spiega in lungo e in largo perché non è cristiano, e oggi un Dawkins predica con veemenza l'ateismo.
La svolta scettica e critica dell'alto pensiero inglese ha avuto come risultato di allontanare dal popolo le passioni religiose più violente. Dopo tutto queste antiche controversie dogmatiche non hanno importanza se le si guarda con l'ironia della ragione. Joseph de Maistre ha affermato che l'Inghilterra aveva smesso di essere persecutrice quando aveva smesso di essere cristiana. È molto ingiusto, ma non completamente falso. La libertà religiosa che diviene effettiva dopo il 1689 finì con l'estendersi ai cattolici che furono emancipati nel 1829.
D'altro canto questo stesso pensiero gerarchizza il suo disprezzo. Accetta al limite che uno sia deista, che nutra un sentimento religioso sincero, ma sopporta difficilmente la speculazione teologica. I logici dimostrano che non ha senso. Si può restare fedeli alla Chiesa stabilita. Ma sul gradino più basso della scala si situa il cattolicesimo, con i suoi dogmi assurdi, la sua filosofia superata, le sue pratiche superstiziose. Non si può essere cattolici e intelligenti. Questo pregiudizio è ben radicato.
Il cristianesimo, così come la Chiesa anglicana lo esprime e lo vive, ha sofferto seriamente per questa disposizione di spirito. Tuttavia la tradizione occamiana, la tradizione della «doppia verità» lasciava un campo libero alla pietà e al misticismo. Persino nelle epoche dell'inaridimento, la Chiesa anglicana ha prodotto studiosi e pii teologi, come i Caroline divines, che si fondavano sui padri greci, e figure sante, come il grande Wesley. Essa ha nutrito le anime con la sua splendida liturgia, i suoi inni profondi e belli. La Chiesa anglicana si è intesa bene con lo Stato e ha saputo mantenere dei legami con il popolo: due punti dove ha fatto meglio della Chiesa gallicana. Essa ha beneficiato (e anche sofferto) della sua stretta associazione con l'idea nazionale inglese. Ha conservato l'ideale del gentleman e ha voluto che in ogni parrocchia il vicar fosse uno solo.
Non voglio parlare qui delle divisioni, delle preoccupazioni, delle debolezze della Chiesa anglicana. Essa le conosce e ne soffre, e la Chiesa romana, che ha le sue, deva aiutarla quanto più può. Io non vorrei ricordare che i suoi meriti. E uno dei più gloriosi non è di aver generato, educato, formato colui che è stato forse il più grande pensatore cristiano degli ultimi due secoli, John Henry Newman, che la Chiesa cattolica ha saputo accogliere, onorare e oggi iscrivere tra i beati?
(©L'Osservatore Romano - 25 settembre 2010)
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