martedì 23 febbraio 2010

«Caritas in veritate», Giovanni Maria Flick: Una risposta laica alla crisi globale (Osservatore Romano)


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«Caritas in veritate»

Una risposta laica alla crisi globale

Lunedì 22 il presidente emerito della Corte Costituzionale italiana ha tenuto una lezione sull'enciclica Caritas in veritate presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Ne pubblichiamo uno stralcio.

di Giovanni Maria Flick

Accanto all'impresa sociale, espressione del "non profit", la Caritas in veritate considera numerosi esempi di imprese tradizionali operanti nel sociale. Così da far emergere un'area intermedia vigorosa, che supera la tradizionale contrapposizione fra Stato (sfera del pubblico e perciò del sociale) e privato (sfera del profitto). La prospettiva valorizza il profitto come strumento per realizzare finalità umane e sociali; e l'utilità sociale non solo come limite alla libertà di iniziativa economica bensì come obiettivo dell'impresa sociale. Il tema dell'impresa si salda strettamente con quello del mercato, perché l'enciclica sottolinea come la pluralità e l'articolazione di forme istituzionali della prima concorrano a una maggiore "civiltà" e competitività del secondo.
Quanto allo Stato, l'enciclica muove dalla rivalutazione del suo ruolo indotta dalla crisi, con i numerosi interventi statali per il salvataggio delle strutture di intermediazione finanziaria. Ma è ben chiara la consapevolezza che non bastano logiche soltanto nazionali, per affrontare un'emergenza originata anche (e proprio) dall'insufficienza delle regole che ne sono l'espressione. Riprendendo uno spunto della Pacem in terris, l'enciclica sottolinea l'opportunità, e anzi la necessità, di sostituire le autorità nazionali con un'autorità globale, soprattutto nell'ambito dell'economia e della finanza.
La rivalutazione dello Stato, al quale pure si applica il binomio Caritas in veritate, si articola in tre riferimenti. In primo luogo lo Stato può e deve essere strumento di realizzazione del bene comune e della giustizia. In secondo luogo, lo Stato è punto di riferimento per i doveri, accanto ai diritti. In terzo luogo, infine, la solidarietà trova attuazione e strumento nelle articolazioni dello Stato, attraverso il principio di sussidiarietà: verticale, mediante la ripartizione di competenze tra i vari livelli pubblici; orizzontale, nella ripartizione tra pubblico e privato.
Il riferimento alla sussidiarietà apre la via all'applicazione del binomio anche alla società civile, come entità non più soltanto residuale rispetto allo Stato e al mercato, e alla quale non può essere attribuita solo la quota di solidarietà "pubblica" venuta meno per la crisi del welfare. La società civile va riscoperta per la ricchezza potenziale delle forme di solidarietà in cui la comunità può manifestarsi. Non possono esservi né soluzione di continuità né contrapposizione rigida, se non nella schematica e antica attribuzione di logiche al mercato (logica del privato e del profitto), allo Stato (logica del pubblico) e al sociale (logica residuale, di supplenza alle lacune degli altri due).
Il raccordo fra "sociale" e Stato, attraverso la sussidiarietà orizzontale si salda strettamente a quello fra Stato e mercato, proposto dalla stessa enciclica. La solidarietà, come espressione tipica della società civile, consente di superare la logica dello scambio che informa gran parte dell'economia globale; poiché la integra con le logiche della politica e del dono (della gratuità), proprie dello Stato e della società civile. La definizione di terzo settore - già delineata dalla Centesimus annus e ripresa vigorosamente dalla Caritas in veritate - schiude una realtà sociale che coinvolge e supera il privato e il pubblico; e non esclude il profitto, ma lo trasforma in strumento per realizzare finalità sociali. Infine, la riflessione dell'enciclica sulla finanza è esplicita, specifica e mirata, poiché lì sta il cuore della crisi, delle sue cause immediate. La patologia finanziaria, da cui la crisi ha avuto origine, dimostra la necessità di una riflessione sui princìpi, da cui far discendere l'elaborazione di regole nuove, delle quali tutti, almeno a parole, sentiamo l'esigenza.
Anche in ambito finanziario l'applicazione del binomio è precisa e concreta. Osserva che non ci si può limitare a segmenti settoriali di "finanza etica". Segmenti "di moda" ma molto settoriali, che proprio per questo si trasformano facilmente in alibi, tranquillante per la coscienza, copertura di immagine rispetto alle deviazioni sostanziali. Le iniziative umanitarie in ambito finanziario sono in sé certamente utili; ma l'intero sistema deve essere finalizzato allo sviluppo, integrale e umano.
Non tradire la fiducia dei risparmiatori; rinnovare strutture e modalità di funzionamento, dopo il pessimo uso che se n'è fatto; tornare alla miglior produzione di ricchezza e allo sviluppo; ripristinare l'equilibrio alterato tra economia finanziaria ed economia reale. Sono alcune fra le urgenze indicate dall'enciclica, con una concretezza che si esprime anche attraverso la esemplificazione articolata e consapevole della realtà: la povertà crescente, anche nei Paesi dello sviluppo economico; la lotta all'usura e il sostegno ai ceti e ai soggetti deboli; la micro-finanza e il credito di prossimità, nei confronti delle piccole imprese e delle famiglie.
L'enciclica non può e non deve proporre regole; tecniche o politiche che siano. Ma può e deve proporre princìpi da cui muovere e valori ai quali tendere attraverso le regole. Mi sembra che princìpi e valori emergano concretamente e con fermezza. Ad esempio, la garanzia della trasparenza e la prevenzione del conflitto di interessi sono ritenute condizioni essenziali e preliminari, per assicurare fiducia e responsabilità, e indirizzare (anche) la finanza allo sviluppo integrale. Sono condizioni sulle quali si può e si deve intervenire concretamente, elaborando regole efficaci e curandone l'effettiva applicazione - non solo la loro proclamazione - a livello sovranazionale e nazionale.
Per la dimensione sovranazionale penso al tema dei Paesi off-shore, o all'utilizzo di tecniche finanziarie spregiudicate - i cui sospetti si sono manifestati appena qualche giorno fa - per "truccare" i bilanci di Paesi membri dell'Unione europea. Sul piano nazionale, penso alla desolazione di quanto va emergendo in Italia, con sistemi di corruzione innovativi rispetto al tradizionale contesto di inefficienza in cui si alimentavano (lubrificante per superare il "non fare" e il "non permettere" di fare), che sembrano essersi trasformati in corollario di una malintesa efficienza, caratterizzata dal "fare" in deroga alle regole e ai controlli.
Insomma, l'enciclica propone un metodo fondamentale: il rifiuto della logica settoriale, della contrapposizione tra economia, politica e finanza; tra pubblico, privato e sociale. La crisi che stiamo vivendo - al di là delle cause remote e prossime, ampiamente ricordate - è soprattutto una crisi ideologica e culturale. Occorre dunque contrapporle un denominatore comune, una risposta globale, una visione positiva, il superamento della serie infinita di contrapposizioni, fino a quella tra carità e verità. È quanto propone l'enciclica coniugando la carità (come azione) e la verità (come relazione), non in rapporto di gerarchia ma nella sinergia che nasce dalla loro inscindibilità e illumina l'intera esperienza umana.
È a mio avviso importante raccogliere, interpretare e applicare questo messaggio anche in una prospettiva laica. E credo di poterlo fare attraverso una parola-chiave, nell'enciclica come nella nostra esperienza giuridica costituzionale: la dignità umana, nel suo duplice e convergente significato universale (la dignità dell'uomo in quanto tale) e particolare (la dignità di ogni persona, nel rapporto con gli altri e nella parità). Al concetto della dignità nella dottrina sociale della Chiesa - come descritto dall'enciclica - sembra cioè di poter affiancare il cammino della dignità umana, sia nell'ordinamento giuridico internazionale, soprattutto dopo le catastrofi della seconda guerra mondiale e della Shoah; sia negli ordinamenti costituzionali nazionali.
La dignità si è affermata in entrambi gli ordinamenti in modo esplicito: come premessa e sintesi dei diritti fondamentali derivanti dalla condizione umana, e come loro contenuto concreto. Penso alle proclamazioni sovranazionali, dalla Dichiarazione universale del 1948 alla Carta di Nizza dell'Unione europea del 2000; e alle Costituzioni nazionali, nelle quali la dignità emerge come valore fondante e denominatore comune di tutti i diritti fondamentali (nella Costituzione tedesca del 1949) ovvero come momento di specificazione di quei diritti (nella Costituzione italiana del 1948, dopo l'affermazione preliminare della pari dignità sociale).
La dignità diviene un ponte fra il passato, che spesso l'ha negata e aggredita, e continua a farlo nel presente; e un futuro nel quale il rischio di umiliarla come valore assume forme sempre nuove e inattese, attraverso l'evoluzione tecnologica e l'incessante scoperta di nuove occasioni e forme di aggressione alla dignità umana, in buona parte legate proprio alle dinamiche della globalizzazione. La dignità, d'altronde, è anche un ponte tra l'eguaglianza di tutti e la diversità di ciascuno: non può comprimere il diritto alla diversità e alla propria identità; ma non può farsi scudo della diversità per alimentare la sopraffazione. Va affermata come principio, ma soprattutto garantita e rispettata in concreto, soprattutto nei confronti dei soggetti deboli, la cui dignità è protetta anche attraverso la solidarietà. Quest'ultima si realizza soprattutto nella sussidiarietà, particolarmente di quella orizzontale; e attraverso la sinergia tra pubblico, privato e sociale.

(©L'Osservatore Romano - 24 febbraio 2010)

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