lunedì 24 maggio 2010
La prolusione del card. Bagnasco: Una Chiesa in cammino stretta attorno a Benedetto XVI (Osservatore Romano)
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Una Chiesa in cammino stretta attorno a Benedetto XVI
Si apre oggi, nell'Aula del Sinodo, nella Città del Vaticano, la sessantunesima assemblea generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), che terminerà il 28 maggio. Pubblichiamo ampi stralci della prolusione del cardinale presidente della Cei.
di Angelo Bagnasco
"Per crucem ad lucem": così avevamo interpretato - all'avvio del Consiglio Permanente del settembre scorso - i primi passi dell'anno pastorale che va ora concludendosi, alla luce cioè di una regola - incontrovertibile, eppure consolante - della vita cristiana (cfr. Prolusione al Consiglio Permanente della Cei, 21 settembre 2009). Ebbene, a me pare che, nell'arco dei mesi successivi, mai in realtà ci si sia allontanati dal solco di quelle parole: per crucem ad lucem. Veniamo infatti da una stagione particolarmente carica di sofferenza e di pena. Naturalmente ci guardiamo dal lasciarci catturare dal pessimismo, restando per noi vincolante l'indicazione secondo cui ogni vero discepolo di Cristo può aspirare a una cosa sola, ossia a condividere la sua passione, senza rivendicare altre ricompense o gratificazioni (cfr. Marco, 10, 39-40).
La quaresima, la settimana santa e il tempo pasquale che abbiamo immediatamente alle spalle ci hanno aiutato non poco ad affrontare la vicenda della pedofilia e delle sofferenze a essa connesse che anzitutto "vengono proprio dall'interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa" stessa (Benedetto XVI, Ai giornalisti nel volo Roma-Lisbona, 11 maggio 2010). Come discepoli del Signore, ci è stato chiesto di impegnarci anzitutto nella purificazione e nella penitenza, che è parola dura, prospettiva che si tende a scantonare. E perché non avessimo esitazione, Pietro si è messo avanti a noi e si è caricato, per primo lui, la croce. Il Papa ci precede e con mano ferma e paterna non cessa di indicare alla Chiesa il proprio centro - Cristo - a richiamarla con la parola e l'esempio, verso quella santità di vita che è vocazione di ogni battezzato e, innanzitutto, di ogni ministro di Dio. E che cosa dovevamo comprendere ancora meglio, aiutati magari da risultanze delle scienze psico-pedagogiche? Che le persone vittime di aggressione pedofila portano a lungo le ferite interiori, che a volte, pur risalendo a molti anni addietro, restano ancora aperte. Non dovevamo cioè esitare a riconoscere che gli abusi feriscono a un livello personale profondo, per saper intuire quale fonte di disordine e di patimenti possa diventare una loro sottovalutazione. In particolare, quando a prevaricare è un sacerdote, persona consacrata che ha una responsabilità educativa tutta speciale, della quale i ragazzi tendenzialmente si fidano. Si spiega anche così il risentimento che emerge talora dopo decenni. L'amarezza, quando non la rabbia, sono cioè in connessione con le attese tradite. Ci si trova davanti a persone che chiedono principalmente di essere capite e accompagnate, con rispetto e delicatezza, lungo un itinerario paziente di recupero e di riconciliazione anzitutto verso se stesse e la loro storia. Il nostro primo pensiero, la nostra prima attenzione è nei confronti delle vittime: ancora una volta esprimiamo a loro tutto il nostro dolore, il nostro profondo rammarico e la cordiale vicinanza per aver subito ciò che è peccato grave e crimine odioso. Non genera in noi stupore il constatare come la sensibilità nei loro confronti sia cresciuta nel tempo: per la società in generale, ma anche per la comunità cristiana. Così come c'è una consapevolezza più evoluta oggi per quel che riguarda il delitto di pedofilia, che può essere anche una patologia ed è certamente peccato terrificante. Per questo, una persona che abusa di minori ha bisogno - a un tempo - della giustizia, come della cura e della grazia. Tutte e tre sono necessarie, e senza confusioni o mistificazioni tra loro. La pena inflitta per il delitto non guarisce automaticamente né dà il perdono, come - all'inverso - il perdono del peccato non guarisce automaticamente la malattia né sostituisce la giustizia (cfr. ibidem), e così la cura non sostituisce la pena, tanto meno può rimettere il peccato. Queste evidenze sono oggi il frutto di una conoscenza più approfondita del dramma della pedofilia, che la Chiesa tuttavia in nessuna stagione ha inteso sottovalutare, sulla scorta del raggelante ammonimento del Vangelo: "Chi (...) scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare" (Matteo, 18, 6). Ha infatti via via adeguato le disposizioni che andavano adottate alla sempre più avvertita conoscenza del fenomeno.
Le direttive chiare e incalzanti che da tempo sono impartite dalla Santa Sede confermano tutta la determinazione a fare verità fino ai necessari provvedimenti, una volta accertati i fatti. L'episcopato italiano, dal canto suo, ha prontamente recepito tali disposizioni, intensificando lo sforzo educativo nei riguardi dei candidati al sacerdozio (cfr. La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, 2007) e il rigore del discernimento servendosi anche delle migliori acquisizioni delle scienze umane, la vigilanza per prevenire situazioni non compatibili con la scelta di Dio e la dedizione al prossimo, una formazione permanente del clero adeguata alle sfide. Siamo, in quanto vescovi italiani, riconoscenti alla Congregazione per la Dottrina della Fede per l'indirizzo e il sostegno nell'inderogabile compito di fare giustizia nella verità, consapevoli che anche un solo caso in questo ambito è sempre troppo, specie se il responsabile è un sacerdote.
Per gli incarichi che ha ricoperto e per la visione sempre lucida dei problemi che l'ha contraddistinto, Joseph Ratzinger ha svolto in questa presa di coscienza ecclesiale un ruolo costantemente propulsivo. Intransigente con ogni sporcizia, egli ha propugnato erga omnes scelte di trasparenza e di pulizia. Da lui la Chiesa ha imparato e impara a non avere paura della verità, anche quando è dolorosa e odiosa, a non tacerla o coprirla. Questo, naturalmente, non significa che si debba subire - qualora ci fossero - strategie di discredito generalizzato o di destrutturazione ecclesiale. E questo la comunità ecclesiale lo sa e lo vede; potremmo dire che l'ha sempre saputo, e per questo ha prontamente solidarizzato con lui di fronte alle insinuazioni assurde qua e là avanzate. Da prefetto della Dottrina della Fede, e con l'avallo di Giovanni Paolo ii, ha operato per introdurre importanti cambiamenti nelle procedure sanzionatorie, con regole uniformi sia per quel che concerne la responsabilizzazione delle diocesi sia per quanto riguarda la competenza del governo centrale, prevedendo anche, caso per caso, la rinuncia alla prescrizione (cfr. Sacramentorum sanctitatis tutela, del 30 aprile 2001). Nello spirito di una corretta e concreta cooperazione, si è inoltre stabilito di dare sempre seguito alle disposizioni della legge civile, e per i casi più gravi si è scelta la via di una rapida dimissione dallo stato clericale, come si legge nella "Guida alle procedure di base riguardo alle accuse di abusi sessuali" della medesima Congregazione. Anche senza ulteriori dichiarazioni, è questa la direttiva di riferimento più aggiornata, esplicita e autorevole a cui ci atteniamo per il nostro discernimento di vescovi, in ordine a qualsiasi intervento da condursi con determinatezza e tempestività.
Da Pontefice, ha condannato ripetutamente e con forza gli abusi sui minori, adottando un metodo scrupoloso di vigilanza, e incontrando in più occasioni gruppi di vittime. Ha più volte raccomandato ai sacerdoti le esigenze della vita ascetica e, seppur con intendimenti più ampi, ha indetto l'Anno sacerdotale. La Lettera che nel marzo scorso egli ha indirizzato ai cattolici d'Irlanda è, per forza e coerenza interna, un testo unico nel suo genere che si è - non a caso - imposto all'attenzione del mondo, veemente e sereno a un tempo, senza margini all'incertezza o alle minimizzazioni. Insomma, le azioni di Benedetto XVI sono eloquenti almeno quanto le sue parole.
Noi vescovi sappiamo di dover ringraziare il Papa per quanto ha fatto e sta facendo in ordine all'esemplarità della Chiesa e dei suoi ministri. Egli è il Pastore all'altezza delle sfide, che affronta con credibilità e lucidità questo tempo difficile; è il maestro che parla della verità di Dio e rivela il giusto rispetto per la verità sugli uomini; è il testimone della carità, come della trasparenza che la carità esige. Non c'è cedevolezza in lui nei riguardi di pressioni esterne, ma un'assunzione di responsabilità proporzionata al suo mandato. Al termine dell'incontro conviviale con il Collegio Cardinalizio, in occasione del quinto anniversario della sua elezione, egli confidava che "sente molto fortemente di non essere solo". Sì, possiamo dire che, nel nostro piccolo, noi non lo lasciamo solo: questa peraltro è la condizione perché noi, a nostra volta, non siamo soli. E non lo lasciano solo neppure le nostre comunità che almeno in due momenti - il 19 aprile e il 16 maggio - hanno voluto anche dimostrarlo pubblicamente. Abbiamo ancora negli occhi il grande abbraccio con cui il laicato cattolico italiano, riempiendo piazza San Pietro, ha inteso esprimere il proprio amore per il Papa: c'era soprattutto la gente semplice, in particolare si sono viste moltissime famiglie, giovani e meno giovani, che dalle varie regioni, anche lontane, dell'Italia si erano messe in strada, affrontando - dov'era necessario - dei sacrifici, per vedere il Papa, per stare un po' con lui, per pregare insieme a lui e per lui, per le intenzioni del suo cuore di pastore universale. Nessuna esibizione, ben inteso, ma un gesto consapevole e grato, e per questo anche festoso, come di figli con il padre.
Dicevamo prima che c'è un'evoluzione rassicurante a proposito della sensibilità con cui generalmente si valuta il fenomeno della pedofilia, arrivando sempre più spesso a porre seri interrogativi circa la spersonalizzazione cui è soggetta l'infanzia nella rete del web come nella pubblicistica corrente, in ampi segmenti della comunicazione pubblicitaria come in taluni programmi televisivi. E circa l'ipocrisia con cui spesso si giustifica ogni abuso, o si coprono inconfessabili scelte di svago e di turismo. Possiamo noi forse dimenticare le segnalazioni allarmate di confratelli vescovi dell'Estremo Oriente in merito al commercio obbrobrioso di cui anche nostri connazionali si rendono colà responsabili? Possiamo forse non ripetere l'allarme, da noi già lanciato, sulle multinazionali della pornografia che sono in agguato dietro l'adozione, in se stessa positiva per la televisione, del digitale terrestre? Senza qui evocare le posizioni estreme di chi nel mondo occidentale vorrebbe dare addirittura dignità politica alla pratica pedofila, si deve pur dire che ci si muove dentro a una più generale contraddizione culturale ed etica. C'è oggi infatti una esasperazione indubitabile circa la dimensione della sessualità, contrassegnata da una pervasività addirittura ossessiva, che non può - a lungo andare - non produrre effetti indesiderati sugli atteggiamenti delle persone, in particolare quelle psicologicamente più fragili ed esposte. Operare perché le persone diventino vieppiù fragili significa sfrangiare e indebolire la società intera. Qual è lo scopo?
L'opinione pubblica come le famiglie devono sapere che noi Chiesa faremo di tutto per meritare sempre, e sempre di più, la fiducia che generalmente ci viene accordata anche da genitori non credenti o non frequentanti. Non risparmieremo attenzione, verifiche, provvedimenti; non sorvoleremo su segnali o dubbi; non rinunceremo a interpretare, con ogni premura e ogni scrupolo necessari, la nostra funzione educativa. Il mistero incomprimibile insito in ogni persona, sacrario inviolabile e vocazione alla trascendenza, è la bussola che ci guida, la regola che deve sempre condurci. Qui è la nostra missione, rispetto alla quale non possiamo distrarci né deludere. Sulla integrità dei nostri preti, del nostro personale religioso, dei nostri ambienti, noi non possiamo transigere perché essa sta al cuore delle nostre scelte di dedizione al Signore e di servizio ai fratelli. E bisogna dire che i nostri sacerdoti, per come stanno in mezzo al popolo, per come operano, per come si spendono, sono la gloria della nostra Chiesa. I casi di indegnità che fin qui sono emersi e - Dio non voglia - potranno ancora emergere, non possono oscurare il luminoso impegno che il clero italiano nel suo complesso, da tempo immemore, svolge in ogni angolo del Paese.
Circostanza provvidenziale, nel nostro cammino, è stato l'Anno sacerdotale, indetto a sorpresa dal Papa per il 150° anniversario della morte del Santo Curato d'Ars, e che si concluderà nel mese prossimo. Dal 9 all'11 giugno infatti avrà luogo a Roma, da tutto il mondo, una grande convocazione di sacerdoti, una sorta di "cenacolo sacerdotale", dove non mancherà ovviamente la presenza del Santo Padre, e a cui sollecitiamo caldamente i nostri preti.
Oltre a rinforzare la spina dorsale dell'identità, quest'Anno è stata l'occasione per precisare la logica che di fatto muove ogni sacerdote. Gli è richiesto come a ogni cristiano, ma a lui in modo specialissimo perché pastore, di essere "nel" mondo ma non "del" mondo. Se diventiamo del mondo, invero, con l'illusione di essergli più vicini, in realtà lo abbandoniamo e non lo serviamo. Essere veramente nel mondo, infatti, richiede un'alterità, esige che siamo "davanti" al mondo con un volto e un dono da offrire. Essere del mondo, invece, significa non avere più nulla da dire per la sua salvezza, e quindi - in fondo - non amarlo davvero. Accogliere liberamente il dono del celibato e percorrerne il sentiero non implica alcuna mutilazione psicologica o spirituale, né tradisce visioni inadeguate o immature della sessualità umana. In realtà, vissuto con lo sguardo fisso in Gesù e con cuore indiviso per il bene della comunità, il celibato richiesto dalla Chiesa latina è un'esperienza di amore realizzante che fa fiorire l'umanità del sacerdote e la trasforma in una dedizione incondizionata, che in maniera decisiva contribuisce alla responsabilità della comunione, alla possibilità dunque che i fratelli "si aggrappino alla cordata", in ultima istanza alla bellezza divina della Chiesa stessa.
È noto a tutti i confratelli come in questa Assemblea episcopale si dovranno valutare - e, nel caso, approvare - gli Orientamenti pastorali per il decennio 2011-2020 che già si era deciso di incentrare sulla dimensione educativa. Non c'è chi non possa cogliere come in questo tipo di scelta la Chiesa italiana intenda continuare, nonostante la complessità dei problemi in parte anche accennati, a interpretare la propria missione senza complessi e senza menomazioni. Non solo: riteniamo come Chiesa che, se c'è da percorrere un confronto e uno scambio sinergico con la comunità civile e le sue diverse istituzioni, non si possa optare per un'incombenza di scarso momento, ma ci si debba orientare senz'altro verso un orizzonte cruciale della vita di oggi. La sfida educativa è cimento adeguato. Se per un istante si pone mente infatti agli episodi di certa cronaca scolastica o a taluni fatti di violenza che si verificano purtroppo anche in famiglia come nei piccoli centri, venendo magari facilmente liquidati come raptus mentre con ogni evidenza si tratta anzitutto di vistosi deficit nella filiera educativa, allora si comprende come si sia oramai in una situazione in cui il vuoto di valori sfocia immediatamente, senza più stadi intermedi, nel disagio se non nella disintegrazione sociale.
C'è all'orizzonte un evento di cui si sta discutendo, a tratti anche animatamente, e che ci interessa molto da vicino. È il 150° anniversario dell'Unità d'Italia. L'unità del Paese resta una conquista e un ancoraggio irrinunciabili: ogni auspicabile riforma condivisa, a partire da quella federalista, per essere un approdo giovevole, dovrà storicizzare il vincolo unitario e coerentemente farlo evolvere per il meglio di tutti.
Di fronte a tante obiezioni e a talune polemiche che ci rincorrono come italiani, verrebbe da dire: accettiamoci, amici, per quello che siamo, a partire dalla nostra geografia e dalla nostra storia, dalla nostra tradizione e dalla nostra cultura. È saggio confrontarsi con gli altri, è bene cercare di imparare da tutti, ma è sciocco illudersi che l'emancipazione coincida con la fuga da se stessi, immaginarsi nelle condizioni altrui. La questione in particolare dei rapporti tra Stato e Chiesa, e di conseguenza l'esplicazione di una autentica laicità, è stata per noi italiani una vicenda forse un po' più complessa che per altri, costata dibattiti e lacerazioni che hanno tormentato le coscienze più vigili; ma oggi - per i termini in cui è definita (cfr. Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana di modifica al Concordato Lateranense, 18 febbraio 1984) - essa si presenta come un approdo di generale soddisfazione. L'Italia contenta di sé, cerca spontaneamente di superarsi e di stringere relazioni mai anonime con tutti. Bisogna per questo alimentare la cultura dello stare insieme, decidere di volersi reciprocamente più bene. Niente, nel bagaglio che ci distingue, può essere così incombente da annullare il nostro vincolo nazionale. Occorre, nello stesso tempo, essere lucidi quanto allo "strumento" moderno dello Stato che, per i compiti oggi esigiti, va non solo preservato ma affinato e reso sempre più efficiente. Per questo servono visioni grandi per nutrire gli spiriti, vincendo paure o resistenze, e recuperando il gusto di pensarci come un insieme vivo e dinamico, consapevole e grato per la propria identità, e per questo accogliente e solidale con quanti approdano con onestà e impegno alla ricerca di un futuro più umano.
La sentenza, emessa il 3 novembre scorso dalla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo, a proposito dell'esposizione del crocifisso nelle scuole italiane, non poteva essere accolta che con lo stupore dell'incredibilità. Confidiamo in una lungimirante rettifica in sede di ricorso nel prossimo mese di giugno, in forza anche delle ragioni che in modo autorevole e competente sono state espresse in diverse sedi, essendosi trattato di un pronunciamento che non solo contraddice la giurisprudenza consolidata della stessa Corte, ma trascura del tutto - fino a negarle - le radici iscritte nelle costituzioni, nelle leggi fondamentali sulla libertà religiosa e nei concordati della stragrande maggioranza dei Paesi membri.
Puntando al futuro, ci sono due realtà che giudichiamo fondanti e sono infatti strutturalmente strategiche. Anzitutto, la famiglia fondata su quel bene inalterabile che è il matrimonio tra un uomo e una donna, che va difeso - come bene ha fatto la Corte Costituzionale con l'importante sentenza resa nota il 14 aprile scorso - e continuamente preservato quale crogiuolo di energia morale, determinante nel dare prospettive di vita al nostro presente. Eppure l'Italia sta andando verso un lento suicidio demografico: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli, e tra quelle che ne hanno quasi la metà ne contemplano uno solo, il resto due, e solamente il 5, 1 delle famiglie ha tre o più di tre figli. Sembra inutile evocare scenari preoccupanti, e certo non incoraggiante è ripetere previsioni peraltro già note sotto il profilo sociale e culturale. Urge una politica che sia orientata ai figli, che voglia da subito farsi carico di un equilibrato ricambio generazionale. Ci permettiamo di insistere con i responsabili della cosa pubblica affinché pongano in essere iniziative urgenti e incisive: questo è paradossalmente il momento per farlo. Proprio perché perdura una condizione di pesante difficoltà economica, bisogna tentare di uscirne attraverso parametri sociali nuovi e coerenti con le analisi fatte. Il quoziente familiare è l'innovazione che si attende e che può liberare l'avvenire della nostra società. Da parte nostra ci impegniamo affinché nella pastorale familiare, e in quella volta alla preparazione al matrimonio, si operi per radicare ancor più la coscienza dei figli come doni che moltiplicano il credito verso la vita e il suo domani.
L'altro perno essenziale è dato dal lavoro, che è la risorsa, anzi la quota parte minima di capitale fornita dalla società a ciascun cittadino, in particolare ai giovani alla ricerca del primo impiego, perché possano inserirsi e, trovando senso in ciò che fanno, sentirsi utili quali attori di crescita e di sviluppo. È questo lavoro che spesso oggi latita, creando situazioni di disagio pesante nell'ambito delle famiglie giovani e meno giovani, in ogni regione d'Italia, e con indici decisamente allarmanti nel Meridione. Il lavoro, in sostanza, è tornato a essere, dopo anni di ragionevoli speranze, una preoccupazione che angoscia e per la quale chiediamo un supplemento di sforzo e di cura all'intera classe dirigente del Paese: politici, imprenditori, banchieri e sindacalisti. Si dice, tra l'altro, che l'uscita dalla crisi non significherà nuova occupazione, il che pare una ragione decisiva per procedere, senza ulteriori indugi, a riforme che producano crescita, mettere il più possibile in campo risorse che finanzino gli investimenti, in altre parole potenziare le piccole e medie industrie, metterle in rete anche sul piano decisionale, qualificare il settore della ricerca e quello turistico, potenziare l'agricoltura e l'artigianato, sveltire la distribuzione, facilitare il mondo cooperativistico. Bisogna cioè rinforzare i soggetti che meglio esprimono le qualità del territorio e più possono assorbire e rimotivare leve del lavoro.
(©L'Osservatore Romano - 24-25 maggio 2010)
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