sabato 3 luglio 2010

Quando Papa Montini onorò Celestino V e Bonifacio VIII: Rinnovamento e tradizione (Osservatore Romano)


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Il National Catholic Reporter (l'NCR!) bacchetta sonoramente il NYT e spiega finalmente che la Santa Sede è competente per la pedofilia solo dal 2001!

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Quando Papa Montini onorò Celestino V e Bonifacio VIII

Rinnovamento e tradizione

Alla vigilia della visita del Papa a Sulmona in occasione dell'anno giubilare celestiniano, ripubblichiamo l'editoriale intitolato "Il magistero dei secoli" che il direttore Manzini dedicò, su "L'Osservatore Romano" del 3 settembre 1966, alla visita che Paolo VI aveva appena compiuto in Ciociaria per onorare la memoria dei suoi predecessori.

di Raimondo Manzini

La visita - che qualche giornalista aveva supposto "sentimentale" e qualche altro "politica" - del Papa in luoghi sacri alla grande storia della Chiesa nella terra ciociara, è assurta al significato di un solenne atto di magistero religioso oltre che di omaggio affettivo. I luoghi per la storia che ivi è tramandata parlano già da se stessi agli spiriti attenti; ma il loro richiamo è stato reso attuale dalla parola viva di Paolo VI, cosicché si comprende come la visita abbia trovato, come ancora troverà, una eco profonda nel sentimento universale.
Facile è rilevare il nesso che lega i tre discorsi pronunziati ieri dal Papa tra gli eremi e le vestigia di una secolare drammatica storia: il segno divino sulla Chiesa, la fede nei carismi della santità, il rinnovamento della vita cristiana in armonia e non in contrasto con la tradizione, la docilità al supremo magistero gerarchico, l'invito alla unione laddove aspra visse la disunione.
A Fumone Paolo VI ci ha fatto considerare due insegnamenti che si debbono dedurre dal ricordo del pio monaco eremita Pietro di Morrone, diventato Papa Celestino V per obbedienza e dimissionario per coscienza; vale a dire l'assistenza divina sulla Chiesa, cosicché ogni procella è impotente contro il suo navigare, e il valore della santità superatrice del nostro stesso limite umano, quasi garanzia di una benefica immortalità nella storia. D'altronde si debbono meditare i moniti degli antichi procellosi tempi "terribili per la Chiesa", riconoscendone le affinità con la nostra epoca di trasformazione, di contraddizione onde trarne vigoria interiore e luce di speranza.
Il discorso di Ferentino in stretta connessione si chiede come dobbiamo conservare e alimentare oggi questa fede e questa virtù cristiane, in vista degli atteggiamenti e delle sensibilità diffuse nella vita ecclesiale dal post-concilio. Il Papa ci ammonisce di evitare due eccessi ugualmente errati e contraddittori: quelli di coloro che una febbre di novità e di mutazione spinge a rifiutare e a misconoscere il passato della Chiesa pur valido e su cui si fonda la tradizione; e coloro che per male inteso amore del passato sono sordi e ostili alle positive esigenze del rinnovamento e dell'aggiornamento definite dal concilio e vincolanti per tutti i cristiani.
Alcuni vorrebbero rompere col passato; altri trovano solo in esso il buono. Ma, ha precisato Paolo VI: "Anche questo atteggiamento non è giusto e non è cristiano" perché bisogna guardare all'avvenire "aprendo il cuore, l'anima e l'intelligenza" come non bisogna "abdicare al tesoro di tradizioni memorabili e gloriose di ieri" conservando della tradizione "quanto è vivo, vero ed eterno". Fiducia nella Chiesa, dunque, che ci traccia il sentiero ed è madre e maestra.
Ad Anagni, infine, superno spalto arroccato, reliquiario di storia, "città papale", dove il nome di Celestino V si collega inseparabilmente e drammaticamente a quello di Bonifacio VIII "che fu tanto diverso da lui, formidabile nella sua azione per la Chiesa", la continuità secolare già rievocata ha offerto al Papa fondamentali applicazioni per noi.
Anzitutto un atto di giustizia storica, dopo quello reso a Fumone al monaco e Papa Celestino che non "per viltà ma per onestà" operò il "gran rifiuto": vale a dire si deve anche riconoscere che Bonifacio VIII non già perseguitò o costrinse il candido predecessore, ma lo isolò per proteggerlo dalle arti di quanti avrebbero potuto ancora insidiarlo e per salvare la Chiesa dai pericoli di un possibile rovinoso scisma.
Il Papa ha ricordato che nessun vicario di Cristo fu tanto discusso, tanto avversato e vituperato nella storia come Bonifacio VIII. Perché? Perché fu il Papa che più degli altri ha affermato l'autorità del Romano Pontefice, nella drammatica controversia coi potenti come nella vigorosa dottrina e pose i principi per una autentica "scala dei valori" quale oggi non riusciamo a stabilire.
La lezione che dobbiamo ricavarne è la comprensione dei nostri obblighi di lealtà verso la Gerarchia, causa efficiente e principio di vita per la Chiesa. Non diffidenza e resistenza per una male intesa illimitata autonomia del proprio pensare e operare, ma docilità e fiducia. "Dio non ci ha lasciato camminare come pecore senza guida, ma ha incaricato qualcuno di organizzare il suo Corpo mistico". "Perciò alla Gerarchia dobbiamo obbedienza, ma obbedienza capita, professata, meditata non come schiavi o vinti ma come figli che la reclamano, l'amano, la servono".
La trilogia di Paolo VI ad Anagni "da dove partirono le più grandi scomuniche contro re e imperatori" e dove ebbe origine lo scisma di Occidente, si chiudeva con un universale appello di pace e con un invito all'unità dei cristiani "perché si faccia un solo ovile ed un solo pastore". Nel gran libro dei secoli suggestivamente compulsato, Paolo VI ha ieri indicato i capitoli per la positiva e vincolante realtà della Chiesa post-conciliare. Un itinerario augusto dal passato al presente.

(©L'Osservatore Romano - 4 luglio 2010)

Nel 1966 Paolo vi andò a Fumone

Il miracolo vivente del cattolicesimo

Castello di Fumone, 19 maggio 1296: dopo quasi un anno di prigionia muore il Pontefice eremita Celestino v, al secolo Pietro del Morrone. Stesso luogo, 670 anni dopo: Paolo vi rende omaggio al suo predecessore. La visita di Benedetto xvi a Sulmona per l'anno giubilare celestiniano, in programma domenica 4 luglio, rimanda a quella compiuta 44 anni fa da Papa Montini nella fortezza del frusinate. Per lui si trattò di un ritorno, essendovi già stato nel 1948 quando era sostituto della Segreteria di Stato. Ma nel 1966 giunse come successore di Pietro per rendere onore al Pontefice molisano che eletto al soglio il 5 luglio 1294, rassegnò le dimissioni il successivo 13 dicembre. Celestino fu catturato a Vieste nel giugno 1295 mentre tentava di raggiungere l'eremo di Sant'Onofrio. Consegnato al nuovo Papa Bonifacio viii — Benedetto Caetani, eletto il 24 dicembre 1294 — fu imprigionato nel mese di agosto a Fumone, dove rimase fino alla morte. Fu lo stesso Paolo vi a illustrare i due grandi insegnamenti dettati dalla vita di Celestino: «Il primo — disse — ce lo dà la storia che ci riporta a circa 700 anni orsono, mentre il medioevo si avvia al tramonto e fa vedere già l'alba di nuove condizioni di vita per Roma, per l'Italia, per l'Europa intera». La sua figura di Pontefice richiama — aggiunse — «alle origini della Chiesa, all'investitura data da Nostro Signore a San Pietro e ai suoi Successori: dobbiamo meditare su questa continuità apostolica — esortò — che supera le vicende, le quali sembrano le meno propizie e si perpetua fino a noi e nei secoli avvenire, perché c'è il dito di Dio, una presenza divina nella Chiesa. (...) Ecco l'essenza della Chiesa, ecco il destino di Roma sede del Successore di Pietro: ovunque la decadenza è fatale ma nella Chiesa c'è un carisma, c'è la promessa e la presenza divina: “Io sarò con voi fino alla fine dei secoli”. Questo è il miracolo vivente del cattolicesimo». Quanto al secondo insegnamento di Celestino, Montini lo individuò nella santità, nell'intreccio «delle virtù cristiane con tutte le miserie e umane debolezze, che ne sono superate». Egli — spiegò Paolo vi — comprende «che è ingannato da quelli che lo circondano, che profittano della sua inesperienza per strappargli benefici. Ed ecco rifulgere la santità sulle manchevolezze umane: il Papa, come per dovere aveva accettato il Pontificato supremo, così, per dovere, vi rinuncia; non per viltà, come Dante scrisse — se le sue parole si riferiscono veramente a Celestino — ma per eroismo di virtù, per sentimento di dovere».

(©L'Osservatore Romano - 4 luglio 2010)

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