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L’INVASIONE DI ROMA. E UN GRAN DIALOGO
NELLA BELLEZZA COL SEGNO DELLA CROCE
DAVIDE RONDONI
Ieri c’è stata l’invasione di Roma. Treni pieni, strade colme, tutto esaurito nei musei. Alla folla di turisti che cercano la bellezza e sanno che lì si può trovare, maestosa, disponibile, familiare e umilmente sottomessa a ogni sguardo e a ogni passo, s’è mescolata un’altra folla, immensa, di ragazzini.
Li ho visti per la strada, li ho visti affollare Piazza del Popolo. La mattina avevano invaso quella di san Pietro. Invasori anche loro, in mezzo alla città della bellezza e dell’umano, del caos e dello splendore, del disastro e della gloria. Nella città dell’uomo. Invasori con il segno della croce addosso e con addosso la loro quasi sfrontata giovinezza. La loro indocile promessa di vita. Roma ha patito molte invasioni. Di cosiddetti barbari. E di vincitori di ogni genere. In genere vincitori di breve durata, rispetto al grande potente flusso che emana da questo luogo, alla vittoria senza armi di una bellezza che chiama le più antiche aspirazioni dell’uomo, il più acuto e quasi doloroso senso della misura e della dismisura e insieme tiene i segni della strana bellezza del cristianesimo. Che è appunto quel medesimo segno della croce che i giovanissimi della Azione Cattolica tenevano appeso al collo, allo zainetto, in mille maglie o sciarpette o altri segnali. La strana bellezza del cristianesimo, che tiene insieme l’aspirazione alla più alta e sublime gioia e la drammatica, dolorosa esperienza della storia, del sacrificio e del limite. La bellezza del crocifisso che è la stessa carne del Risorto. A volte capita di chiedermi cosa penserebbe Gesù Cristo vedendo questi ragazzini andare in giro con il segno della sua croce addosso. Portato come un segno di giovinezza, come un segno di novità, come un pegno che la vita non è vana. E come un segno di contemporaneità che supera mille altri emblemi.
Roma, splendida e sempre in grado di turbare, ha accolto anche questa invasione. Ci sono le star e gli amanti del cinema per la festa annuale, ci sono le migliaia di turisti e poi loro i centomila ragazzini italiani. In una manifestazione che non esprime –come tante, purtroppo – solo un risentimento, ma una ricerca, una tensione positiva. Questi ragazzi, anch’essi un po’ barbari e un po’ no, insomma del tutto italiani, razza delle razze, sono venuti qui non per fare un po’ di turismo, non solo per riempirsi gli occhi della bellezza impetuosa e segreta di questa città che continua a chiamare gente da ogni parte del mondo. Sono venuti innanzitutto per incontrare il Papa. Anzi, per essere incontrati da lui. Che infatti si è prestato, si è messo a loro disposizione in un dialogo ad altezza di ragazzo. Cioè ad altezza di cuore. Insomma, ad altezza d’uomo. Perché l’uomo è quel che il suo cuore desidera. E la frase che gli adulti che accompagnano questi ragazzini – in un lavoro spesso oscuro, mai celebrato, mai sotto le telecamere, «servitori della loro gioia» come ha detto il Papa – hanno scelto era semplice: «C’è di più».
Come è vero che ogni opera d’arte invita a scoprire che c’è di più. Ogni amore, ogni immagine, ogni evento –come scriveva Montale – porta l’invito ad andare più in là. Come dire che ogni cosa è segno. Lo ha raccontato anche il Papa ai ragazzini, parlando di sé ragazzino, quando ha ricordato che lui era il più piccoletto della classe e se voleva crescere doveva proprio puntare su un «di più» che non fosse solo visibile. Non si trattava per lui (per l’uomo che ora è Papa) di crescere in potenza, in onore, in gloria. In successo. Ma di crescere in quel che la vita promette come compimento, come verità dell’essere umano.
Benedetto ha ricordato gli adulti che nel Vangelo erano «disturbati» perché i bambini attorniavano Gesù. Ora come allora, lui e quei ragazzini invasori di Roma hanno detto qualcosa di nuovo e di antico. Hanno reso la miglior giustizia alla bellezza stupefacente e drammatica di questa città. Alla bellezza d’essere uomini che cercano la misura e la dismisura adeguata all’amare, al morire, al patire, al godere. Al vivere.
© Copyright Avvenire, 31 ottobre 2010
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