martedì 22 dicembre 2009

Intervista a tutto campo al cardinale Bagnasco (Calabresi e Mastrolilli)


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TRA POLITICA E SPIRITUALITA'

Bagnasco: "Non potremo mai tacere"

Il presidente Cei: «La Chiesa non è una lobby, la fede ha ricadute pubbliche e sociali»

MARIO CALABRESI, PAOLO MASTROLILLI

ROMA

Il Cardinale Angelo Bagnasco è appena uscito dall’incontro con Benedetto XVI per lo scambio degli auguri di Natale con la Curia. Il presidente della Cei scruta i titoli dati al discorso del Pontefice e scuote la testa: «Sono tutti sbagliati».
Parla con lentezza, attento ad ogni sfumatura. La cosa che ama di meno è la spettacolarizzazione delle parole, e ha accettato di rilasciare quest’intervista proprio per chiarire il suo pensiero al termine di un anno turbolento e confuso per il Paese. «Si è enfatizzato il no alla politica del Papa, ma se è vero che la Chiesa non è una lobby politica o di potere, è però inevitabile che la fede abbia ricadute pubbliche e sociali. Questo è inevitabile. La Chiesa non può tacere su tutto ciò che attiene l’uomo e Benedetto XVI ci ha voluto dare un esempio di come il sacerdote debba occuparsi di ogni cosa che attiene alla vita degli uomini, sempre però da pastore».

All’Assemblea generale della Cei ad Assisi lei aveva detto: «E’ necessario e urgente svelenire il clima generale in Italia». Lo stesso presidente del Consiglio nei giorni scorsi è stato aggredito. Le sembra che il suo appello sia stato recepito?

«Vorrei anzitutto rinnovare la vicinanza sincera al presidente del Consiglio per l’atto di violenza di cui è stato fatto oggetto, in modo tanto imprevedibile quanto gratuito. Mi auguro che i toni – dopo questo segnale allarmante del degrado democratico – possano volgere verso un confronto più maturo che, senza nulla togliere alla necessaria dialettica tra governo e opposizione, sappia farsi carico anzitutto dei problemi del Paese e poi delle legittime diversità di opinione. La gente è stanca di una pregiudiziale e sistematica contrapposizione che è tanto più inconcludente quanto più è urlata».

Si è cominciato a discutere di riforme condivise, le sembra un segnale incoraggiante?

«Le parole sono migliori di prima: se gli diamo un credito e pensiamo che abbiano un significato, allora è un buon segno. Speriamo che questa volte alle buone intenzioni seguano davvero i fatti...».

In questi giorni sono emerse tensioni con la comunità ebraica per la decisione del Pontefice di avviare le procedure di beatificazione per Pio XII. Il Cardinale non vuole entrare nel merito ma ci tiene a spiegare: «L’iter previsto va avanti secondo procedure che sono molto rigorose. Quindi lasciamo che il lavoro degli esperti e delle persone responsabili proceda serenamente». A Copenhagen si è appena concluso il vertice mondiale sull’ambiente: è soddisfatto dei risultati raggiunti?

«Penso che si patisca sempre un po’ di delusione quando si registra lo scarto tra le attese della vigilia e i risultati di taluni eventi internazionali. Non vi è dubbio comunque che la mentalità della gente e non solo il clima sta cambiando. Trovo importante far crescere in particolare la consapevolezza che esiste un legame di causa-effetto tra equilibrio interno ed equilibrio esterno. Spesso quel che è il dissesto della natura è solo un riflesso della confusione interiore. Anche perché - come annota Benedetto XVI nel suo Messaggio per la pace di quest’anno -: “Quando la natura e, in primo luogo, l’essere umano vengono considerati semplicemente frutto del caso o del determinismo evolutivo, rischia di attenuarsi nelle coscienze la consapevolezza della responsabilità”».

Di recente diversi politici cattolici hanno manifestato disagio tanto all’interno del Pd quanto nel Pdl, dopo le critiche della Lega all’arcivescovo di Milano Tettamanzi. I cattolici hanno bisogno di una nuova casa comune in politica?

«I cattolici, in qualunque area geopolitica si muovano per rendere il loro servizio al Paese, non devono mimetizzarsi per paura di non essere accettati. La politica è l’arte della mediazione e il dialogo è necessario per il convergere delle posizioni, ma senza mai dimenticare che ci sono principi non negoziabili, senza dei quali si andrebbe contro l’uomo e la stessa convivenza democratica non avrebbe solide basi. La testimonianza di un credente in politica esige di saper andare controcorrente e di essere all’interno del proprio mondo di riferimento un lievito e non del sale scipito».

Anche il quotidiano della Cei, «Avvenire», è stato oggetto nei mesi scorsi di un pesante attacco. Qualche giorno fa il direttore de «Il Giornale», Vittorio Feltri, si è scusato con l’ex direttore Dino Boffo per la campagna scatenata contro di lui. Lei giudica sufficienti queste scuse?

«Si è trattato senza dubbio di scuse tardive, ma sono state la conferma di quanto già si sapeva del dottor Boffo, che è persona integra e professionista di grande valore. A lui va la stima e la riconoscenza di tutti per la passione e l’intelligenza con cui ha lavorato, facendo emergere con crescente chiarezza la posizione della Chiesa nel vivo del dibattito culturale e sociale del nostro Paese. Spero che le recenti parole del Santo Padre ai media siano motivo di serio e concreto ripensamento».

Il Parlamento italiano sta ancora discutendo la legge sul biotestamento. Lei teme un tentativo di introdurre surrettiziamente l’eutanasia in Italia?

«Fare testamento è poter disporre delle proprie cose in favore di altri, ma la vita non è semplicemente una cosa. Della vita non si dispone, anche se alla vita apparteniamo. Probabilmente il lato mancante della cultura oggi è la percezione del limite e dell’autonomia che non è mai assoluta, cioè “sciolta” da qualsiasi altro legame. In realtà nessuno che abbia buon senso può pensare di essere autosufficiente, neanche quando è in piena salute e in frenetica attività. Tutti infatti si dipende anche da altri e molto di quello che siamo lo dobbiamo ad altri. La Chiesa intende tutelare questa dimensione relazionale dell’esistenza che non può interrompersi mai e che anche nella fase delicata della fine della vita deve trovare forme compatibili, come quella di assicurare le condizioni essenziali per sopravvivere. Il resto sarebbe una sorta di abbandono dell’altro, pur ammantato di nobili motivazioni».

All’Assemblea generale della Cei lei ha detto che «anche quando la maschera della morte scende sul volto dei propri cari, si tende a rimuovere l’evento». La società moderna sta banalizzando la morte e quindi anche il significato della vita?

«Il tentativo di rimuovere la morte è la fonte delle nevrosi più scoperte: come il rincorrere il tempo, il mito dell’eterna giovinezza, la mancanza di profondità che nasce solo dal senso dell’irripetibilità di ogni istante. La nostra società è avvertita: se manca il senso della morte anche la vita perde spessore. Ma la vita è più forte della morte, così come ciascuno intuisce nel profondo del proprio cuore».

Dopo il via libera dell’Aifa, la pillola abortiva RU486 è entrata in commercio e lei ha invitato gli operatori sanitari all’obiezione di coscienza. Volete rimettere in discussione la legge 194?

«Ciò che è in discussione è l’applicazione della legge 194. Quel che veniva sbandierato come un diritto, oggi viene inteso di più come un dramma e comunque una sconfitta. La RU486 da parte sua contribuisce ulteriormente a banalizzare il grave male dell’aborto e, oltre a porre serie domande alla salute della donna, la confina in una sorta di isolamento psicologico e morale, lasciandola da sola a dover decidere con una via di fuga all’apparenza facile e innocente».

Lei ad Assisi ha chiesto il reintegro dei fondi destinati al sistema dell’istruzione non statale, cioè alla scuola paritaria. Lei pensa che la scuola cattolica sia penalizzata in Italia?

«La scuola paritaria è una possibilità per tutti e un traguardo democratico, prima di qualsiasi altra considerazione. Se infatti il diritto alla scelta dell’educazione dei figli è da tutti riconosciuto a parole, si tratta poi di renderlo praticabile ed accessibile, senza discriminazione di sorta. A ciò va aggiunta una osservazione pratica: penso ad esempio alle scuola materne, in parte rilevante, di matrice cattolica. Nessuno mette in dubbio che allo Stato costerebbe molto di più gestirle direttamente. E allora perché poi tanta fatica a sostenerle?».

Spesso però si discute in Italia sugli aiuti che la Chiesa riceve dallo Stato. Lei come risponde?

«Gli aiuti – quando ci sono e non sono semplicemente promessi - non sono mai fini a se stessi, ma sempre legati a ben più ampi servizi che la Chiesa rende alla società civile e di cui lo Stato non può disinteressarsi. Concretamente, se d’incanto sparisse la presenza delle suore negli ospedali, o quella dei docenti nelle scuole cattoliche, ma ancor prima la discreta ed efficace azione dei parroci nei territori urbani più disgregati, verrebbe a mancare una grande risorsa del vivere quotidiano, specialmente dei più poveri e bisognosi. La Chiesa non cerca privilegi di alcun genere, ma solo di poter esercitare quest’azione di umanizzazione che giova al bene di tutti, mentre annuncia e rende testimonianza di ciò che le sta a cuore e cioè il Vangelo».

Prima la Corte di Strasburgo ha chiesto all’Italia di togliere i crocifissi dalle aule delle scuole, poi un referendum ha bandito i minareti in Svizzera. La difficile convivenza tra le culture e le religioni in Europa sta scivolando verso lo scontro quotidiano tra le civiltà?

«Non credo che si vada verso lo scontro tra le religioni. Il dialogo religioso, al contrario, aiuta la reciproca comprensione dei popoli ed introduce un elemento ulteriore rispetto alle contrapposizioni culturali ed economiche che sono – queste sì - alla base dei conflitti. L’idea che l’assoluto introduca la violenza è un pregiudizio diffuso. Molto di più produce l’indifferenza e il relativismo culturale che minano le basi della condivisione dei valori di base».

Il documento della Cei «Risorse e dignità del Mezzogiorno» sostiene che «sarebbe una sconfitta per tutti se il federalismo allontanasse le diverse parti d’Italia». Come si può realizzare «un federalismo fiscale solidale»?

«Il federalismo è un punto nevralgico della trasformazione politica e istituzionale, a patto che non equivalga ad uno spezzettamento del nostro Paese. Un sano federalismo fiscale è una sfida per l’intero Paese se permane la responsabilità unitaria sulle infrastrutture, sull’integrazione sociale, sulla lotta alla criminalità. Il Paese non supererà la crisi se non insieme, e certamente un Meridione umiliato farebbe l’Italia più piccola e più fragile».

Cosa bisognerebbe fare in Italia per sostenere la famiglia?

«La famiglia è la prova empirica dell’unità della questione antropologica. Quando si lede una dimensione come quella che è all’origine di ciascuno di noi si compromettono non solo le dinamiche relazionali, ma perfino quelle economiche. Tutti oggi sappiamo ad esempio che la famiglia è un ammortizzatore sociale, che la crisi demografica è pure un segnale di crisi sociale e dunque siamo avvertiti che la famiglia non è solo una questione di tradizione, ma di prospettiva. Occorre passare dalle parole ai fatti perché la famiglia è il volano dello sviluppo».

Quali sono i temi che le stanno più a cuore?

«Personalmente il problema che viene per primo è la questione di Dio. Quando infatti Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini l’umanità perde l’incanto del mondo, l’orientamento della vita, la scommessa del futuro. Non è strano dunque che l’eclissi di Dio abbia coinciso con un progressivo oscurarsi anche delle più elementari evidenze umane, a cominciare dalla vita stessa minacciata in forme sempre più aggressive quando non banalizzata e abbandonata alla logica del più forte. Ad esempio, dietro il deprezzamento dell’uomo, che in ambito economico è per lo più una variabile e neanche la più decisiva, o dietro l’irrilevanza delle fasce più deboli della società, si nasconde la stessa dinamica: se manca la percezione dell’assoluto che c’è dentro ogni esistenza umana viene fatalmente meno il rispetto che si deve a ciascuno. Tutti gli altri problemi sono conseguenza di questa perdita dell’alfabeto umano di base».

Per concludere, le sembra che il ruolo della Chiesa in Italia sia ben compreso?

«Sia a Genova che in giro per l’Italia, colgo sempre un’attesa tra le persone più diverse, per estrazione sociale e culturale, e cioè l’attesa di una parola della Chiesa in grado di riscattare l’opacità del quotidiano. Ma ancor più forte è la sensazione che l’esperienza cristiana renda possibile anche oggi l’incontro con Dio, di cui si avverte forte la nostalgia e il desiderio. Certo non mancano qua e là riserve sulla Chiesa, che vengono puntualmente amplificate dal meccanismo mediatico, spesso vincolato ad una doppia legge di gravità: la spettacolarizzazione e la politicizzazione».

© Copyright La Stampa, 22 dicembre 2009 consultabile anche qui.

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