domenica 28 marzo 2010

Ecco dove nasce crisi di rigetto verso la Chiesa nell’epoca di Benedetto XVI (Eugenio Capozzi)


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Libertà e verità

Ecco dove nasce crisi di rigetto verso la Chiesa nell’epoca di Benedetto XVI

di Eugenio Capozzi

Le incredibili manipolazioni attraverso le quali molti mezzi d’informazione internazionali cercano a tutti i costi di coinvolgere la Chiesa cattolica e papa Benedetto XVI in scandali legati a vecchi casi di abusi su minori compiuti da sacerdoti sono soltanto l’ennesimo, più violento episodio di una sistematica campagna di aggressione politica in corso ormai da molti anni. Basti ricordare i fraintendimenti in malafede riversatisi sul discorso pronunciato dal papa a Ratisbona nel 2006 sul rapporto tra religione e violenza, le reazioni aspramente polemiche venute da cancellerie e istituzioni internazionali quando il pontefice ha ribadito la contrarietà cattolica all’uso dei contraccettivi, i giudizi scandalizzati e sprezzanti che risuonano ogni qual volta la Chiesa critica l’istituzione dei matrimoni omosessuali, e via di questo passo.
C’è chi – come Ernesto Galli della Loggia in un editoriale comparso sul “Corriere della sera” il 21 marzo scorso – sostiene la tesi secondo cui nelle società occidentali (e quella italiana per lui non fa eccezione) si è ormai radicata una profonda avversione verso il cristianesimo e la Chiesa cattolica, che dalla cultura d’élite ha ormai tracimato nel senso comune popolare. E la metodologia su cui si fondano le sistematiche campagne diffamatorie anticattoliche internazionali è stata esaurientemente “decostruita” su questo sito (26 marzo) da un articolo di Massimo Introvigne. Se, comunque, il quadro tracciato dai due commentatori non è eccessivamente pessimista – e non credo che lo sia – siamo di fronte ad una svolta politico-culturale epocale. Dopo la fine delle guerre ideologiche novecentesche e il profilarsi di un paventato “scontro di civiltà” tra Occidente e Islam, dobbiamo forse prendere finalmente atto che un nuovo ed ancor più radicale conflitto ideologico si è scatenato proprio nel cuore del mondo euro-occidentale “liberale”.

Volendo però mettere alla prova questa interpretazione, è necessario porsi una domanda ulteriore: perché il sentimento anticristiano diffuso è esploso in tutta la sua evidenza soltanto con il pontificato di Joseph Ratzinger, laddove durante il papato di Karol Wojtyla, pur in presenza di notevoli contrapposizioni culturali su temi “sensibili”, la Chiesa ha a lungo goduto di un’autorità quasi universalmente incontestata?

I motivi di questa differenza, a mio avviso, sono soprattutto due.

In primo luogo, la repentina fine della tensione ideologica prodotta dal collasso del comunismo ha prodotto, per molti anni, uno scacco complessivo di ogni prospettiva secolaristica, lasciando sussistere, come unica cultura politica dalle pretese potenzialmente universalistiche, un generico ideale liberaldemocratico fondato sui diritti soggettivi individuali, secondo la traccia dell’internazionalismo segnata dalla Dichiarazione Onu del 1948. In questo contesto il cristianesimo, e in particolare quello cattolico, ha potuto far valere il prestigio che gli derivava dal fatto di offrire a quella cultura una solida base in materia di princìpi, contrapponendo ai totalitarismi non una utilitaristica assolutizzazione del “mercato” o una concezione puramente procedurale della democrazia, ma una concezione alta e sacrale a tutto tondo dell’essere umano. La Chiesa cattolica, poi, poteva vantare la non trascurabile particolarità di essere guidata da un pontefice proveniente proprio dall’Europa orientale slava che aveva sofferto sulla sua pelle la degradazione del comunismo, ed incarnante esemplarmente nella propria figura profetica e carismatica quella incrollabile fede che aveva prevalso sulle caduche ideologie materialistiche.
Negli anni a venire, però, la pretesa prevalenza globale della cultura dei “diritti umani” è andata sempre più mostrando la sua fragilità di fronte al risorgere delle divisioni etnico-nazionalistiche e religiose, ed al corrispondente neo-relativismo fondato sul nuovo feticcio delle “identità” culturali.
Contemporaneamente, eroso il ponte che univa l’ideale dei diritti umani alle sue radici cristiane, il primo si riduceva rapidamente ad una para-ideologia libertaria radicalmente individualista e soggettivistica, poggiante sull’assunto nietzscheano che bisogna “diventare ciò che si è”, qualsiasi cosa si sia: quella che si potrebbe definire approssimativamente una dottrina generalizzata del coming out, in base alla quale ciascun individuo ha il diritto, e anzi il dovere, di realizzare ogni aspirazione connessa a quella che egli opini essere la propria realizzazione personale.
Questo nuovo, sempre più pervasivo clima culturale traeva particolare forza espansiva dai rapidi progressi tecnico-scientifici che rendevano possibile, o quanto meno propagandavano come tale, la possibilità tendenzialmente illimitata di intervenire sulla natura umana attraverso la manipolazione genetica, il superamento dei limiti imposti dalle malattie e dalla mortalità, la prospettiva di “programmare” ogni aspetto della propria vita, incluse la nascita e la morte, la maternità e la paternità. Il nuovo “superomismo” individualistico, nel quale veniva recuperato in una nuova accezione il vocabolario dell’”emancipazione” proprio del progressismo otto-novecentesco, non poteva non viaggiare, quindi, sempre più in rotta di collisione con la visione cristiana dell’uomo e della società, che poneva invece ostacoli filosofici e morali insormontabili alla deriva dell’onnipotenza “biopolitica”.
Questo non spiega del tutto, tuttavia, come mai le stesse argomentazioni che erano state formulate dalla Chiesa su tali temi durante il papato di Woityla siano state accolte con ben maggiore virulenza polemica quando esse sono state riaffermate da papa Ratzinger: il quale peraltro, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e consigliere prediletto da Giovanni Paolo II, aveva svolto un ruolo centrale proprio nell’elaborazione della riflessione in materia. Sull’aborto, sull’eutanasia, sulla contraccezione, sulla fecondazione artificiale, sulla clonazione, sul matrimonio, sull’omosessualità le posizioni della Chiesa cattolica non hanno infatti subìto, nel passaggio da un pontificato all’altro, alcuna modifica.
Per dare una risposta adeguata a questo interrogativo è necessario fissare un secondo punto argomentativo sui mutamenti culturali globali del post-1989.
Detto in estrema sintesi, una tra le caratteristiche principali nel nuovo mainstream para-ideologico radical-soggettivista sta nella decadenza generale, in esso, di qualsiasi credito attribuito all’elaborazione di una visione complessiva del mondo, aspirante all’oggettività, nel campo dell’etica, della politica e del diritto. Il libertarismo fondato sulla “realizzazione” dell’individuo desiderante implica l’avvento di una vera e propria dittatura nemmeno tanto dell’opinione, quanto esclusivamente del feeling, dell’irrelata inclinazione e suggestione personale. In quest’ottica culturale non conta la validità delle idee che si propongono: anzi, quanto più esse sono valide tanto più sono dannose, per il rischio di “assolutismo” che la loro forza comporta alle controparti del dialogo. Conta, invece, unicamente la percezione in base alla quale ogni individuo “costruisce” la propria “identità”. Qualsiasi teoria razionale organica sul senso dell’esistenza umana, dunque, viene sistematicamente stigmatizzata come pulsione autoritaria, come costrizione illiberale.

Ma appunto una teorizzazione organica sul mondo sociale, giuridico e politico è quanto Benedetto XVI va proponendo in ogni sede possibile, con una tenacia pari soltanto alla sua pazienza, dall’inizio del suo pontificato: una vigorosa riformulazione filosofica dell’universalismo cristiano che sfida quanto rimane in piedi delle culture secolaristiche ad un confronto ad armi pari, senza rete, ma esige da esse risposte altrettanto ambiziose.

E’ proprio questa umile ma insistente pretesa, a mio avviso, a risultare insopportabile ad un milieu culturale per il quale lo stesso sforzo di ricercare una verità comune tra interlocutori che partono da punti di vista diversi è privo di senso; ed a suscitare un reazione di radicale rigetto da parte del neo-secolarismo diffuso contro l’unica cultura ad esso integralmente alternativa. Ma se il rischio maggiore, da quel punto di vista, è che prenda piede una discussione razionale a tutto campo avente per oggetto la ricerca della verità, l’unico modo per scongiurarlo è la demolizione della credibilità morale di chi nella esistenza di una verità crede, e ragiona di conseguenza. Una demolizione che, in mancanza di princìpi etici forti e condivisi, può essere costruita soltanto affidandosi al formalismo astratto e farisaico del politically correct.
E’ proprio servendosi di quella pseudo-etica conformistica, tenuta insieme solo dall’assordante cassa di risonanza delle parole d’ordine amplificate all’infinito nel circuito propagandistico-mediatico globale, che le varie forze del radicalismo anticristiano, nella più classica tradizione del totalitarismo novecentesco, attaccano il loro avversario non criticandone le idee bensì cercando di additarlo come oggetto di universale esecrazione: Untermensch con il quale non è lecito nemmeno abbassarsi a discutere.

© Copyright L'Occidentale, 28 marzo 2010

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Semplicemente magistrale.
Grazie!

SdC

Nick ha detto...

Complimenti davvero. Un articolo fantastico perché VERO.

Anonimo ha detto...

«Untermensch»... sì, nelle intenzioni dei suoi detrattori... ma all'occhio della fede mostra, ancora una volta, che il vicario di Cristo fedele segue il Maestro da vicino (Isaia 53)