lunedì 5 luglio 2010

L'avventura di Celestino V: un Papa fra il mito e la storia (Paolo Vian)


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L'avventura di Celestino V

Un Papa fra il mito e la storia

di Paolo Vian

"Nel grande dramma tra Ecclesia spiritualis e Ecclesia carnalis Celestino V è una breve apparizione, ma così rivelatrice, che ne è quasi simbolo. E però la sua personalità mantiene una indeterminatezza che né i suoi antichi biografi né gli studiosi più recenti hanno potuto rimuovere efficacemente, per cogliere tratti individuali e concreti". Al punto che, nelle diverse ricostruzioni, il vecchio eremita del Morrone non riesce ad avere una sua fisionomia propria neppure quando il conclave di Perugia (1294) lo elegge con sorpresa di molti dopo una sede vacante durata ventisette mesi. Sono le riflessioni con le quali Arsenio Frugoni, uno dei grandi maestri della medievistica italiana del Novecento, apriva il suo Celestiniana, pubblicato a Roma nel 1954 per i tipi del glorioso Istituto Storico Italiano per il Medio Evo.
Forse anche per questo - proseguiva Frugoni - gli studi allora più recenti, quelli di Franz Xaver Seppelt (1921) e di Friedrich Baethgen (1943), "si sono limitati ad affrontare particolari momenti ed aspetti senza tentare la monografia conclusiva". Tentata più recentemente (1981) dal medievista tedesco Peter Herde, con la biografia ormai classica uscita nella collana di Hiersemann "Päpste und Papsttum" e tradotta in italiano nel 2004. Ma nonostante il corposo volume, che chiarisce questioni (come quella del luogo d'origine di Pietro del Morrone) sinora molto discusse, la personalità dell'eremita della Maiella continua ad apparire misteriosa e sfuggente. Come in fondo appare a chi legga gli scritti che a lui vennero presto dedicati, dall'Opus metricum del cardinal Iacopo Caetani Stefaneschi, testimone oculare dell'elezione e del pontificato di Celestino, alle molteplici vite che, da Bartolomeo da Trasacco e Tommaso da Sulmona agli inizi del Trecento sino al bergamasco Stefano Tiraboschi nella prima metà del Quattrocento, cercarono di ricostruire il suo lungo percorso.
Probabilmente non si tratta di un caso. Chi legga gli atti del processo di canonizzazione, svoltosi sotto la direzione di Federico de Lecto e dell'agostiniano Giacomo da Viterbo fra il maggio e il giugno 1306 con l'escussione di quasi trecento testimoni tra Napoli, Capua, Castel di Sangro, Sulmona, nel monastero dello Spirito Santo e a Ferentino, chi scorra le molteplici testimonianze che erompono con la freschezza della loro autenticità attraverso la ripetitiva griglia dei formulari di domande prestabilite, avverte subito che tutta la vita di Pietro del Morrone si è svolta in una tensione dialettica, in qualche modo mai risolta, fra il concedersi alle folle che lo cercano per la fama di santità che presto lo aveva avvolto nei diversi luoghi in cui aveva soggiornato e il ritrarsi, quando l'eremita si rende conto che il concorso dei devoti minaccia le condizioni stesse della sua conversatio monastica e del suo rapporto con Dio, l'unica realtà che per lui veramente conta.
Concedersi e ritrarsi, abbandonarsi alle folle che lo cercano e che trovano in lui anche un taumaturgo che guarisce e risana, ma poi fuggirle, per ritrovare quella pace che l'anima cerca e nella quale solo trova riposo. In fondo la breve avventura pontificale di Celestino era in qualche modo già scritta nei suoi precedenti, ripetizione di uno schema che aveva prima costantemente vissuto.
A ben vedere però è quell'"indeterminatezza" di cui scriveva Frugoni nel 1954 all'origine del conflitto di interpretazioni sulla figura del Papa e del suo trapasso nell'ambito del mito: quasi che l'immagine dell'eremita molisano, vissuto consapevolmente nel chiaroscuro del concedersi e del ritrarsi, possa essere riempita di contenuti diversi a seconda dell'interprete che l'avvicina. Di Celestino effettivamente sappiamo poco; non ci aiutano gli atti e i gesti del suo breve pontificato, probabile frutto del gioco di influenze diverse; la cosiddetta Autobiografia, che proprio Frugoni riscattò da fantasiosa leggenda a memoria fedele di esperienze vere, ci offre un clima, un ambiente, un quadro spirituale, non l'espressione di una personalità.
Certo, Pietro del Morrone non fu l'ingenuo e lo sprovveduto che molti dipinsero. Basterebbe a smentirlo la constatazione che fu all'origine e a capo di una congregazione di eremiti che si diffuse e si ramificò, lui vivente, in molteplici fondazioni, fra Italia centrale e meridionale, giungendo presto a varcare le Alpi; per difendere la sua creatura Pietro ebbe la forza e il coraggio di recarsi verso la fine del 1274 a Lione, presso la Curia pontificia, ove ottenne da Gregorio X un solenne privilegio che, incorporando la congregazione nella famiglia benedettina, ne confermava le proprietà, allora già consistenti. Fu a capo di comunità, come quelle di Santa Maria di Faifoli presso Montagano, nel Molise, o San Giovanni in Piano, vicino a Lucera, in Puglia, che riformò e consolidò, anche economicamente.
Ha dunque ragione Frugoni a vedere in Celestino non "quel vegliardo svanito nei silenzi della montagna e nelle maceranti penitenze" ma "l'anima ardente e volitiva che aveva per tanti anni guidato il suo gruppo di monaci, fattosi per lui sempre più grande. Vibrante di una religiosità che si nutriva d'attese escatologiche e rifiutava certo la Chiesa politica come peccato. E peccato gli sarà parsa l'esperienza, ricca di compromessi e di calcoli degli uomini di Chiesa, così diversi dal suo appassionato ideale. Onde un sentirsi meno intimamente insidiato dall'appoggio dei laici che parevan offrirgli devozione e aiuto, e insieme lo sospingevano, in complicità coi monaci, sospettosi del potere di altri ecclesiastici sul loro Padre, contro la Curia canonistica, mondana". Ma quando si accorse che quell'appoggio dei laici, quella devozione premurosa e interessata di Carlo d'Angiò, poteva rivelarsi per la sua Chiesa insidioso e nefasto, Celestino ebbe il coraggio di dimettersi. Il "gran rifiuto" (Inferno, iii, 60) non va interpretato in chiave di viltà ma, comprese ancora acutamente Frugoni, come l'"espressione dello stesso temperamento volitivo, ardente, che ha accettato, quasi inspirante Deo, la prova del concreto governo, e, di fronte al fallimento, ha il coraggio di rinunciare e la tenacia, che in verità occorse grande, per riuscire a rinunciare".
La vita storica di Pietro del Morrone prima e poi di Celestino è dunque tutta giocata in questo concedersi/ritrarsi, nell'andare tra i fratelli per fedeltà al Vangelo e nell'appartarsi di nuovo per una fedeltà ancora più profonda: una storia in qualche modo normale, fra rivelazione e mistero, città e deserto, forse nella consapevolezza che i due poli del binomio sono entrambi necessari all'equilibrio della vita cristiana, come lo erano stati nella vita di Gesù.
Eppure il mito s'impadronisce di Celestino quando, fra l'agosto e l'inizio di ottobre del 1294, il Papa riceve una piccola delegazione di francescani marchigiani emigrati in Oriente per sfuggire all'ostilità e alla persecuzione dei confratelli e per proseguire la loro esperienza di fedeltà intransigente al testamento di Francesco d'Assisi. Celestino li conosce, ha probabilmente avuto contatti con loro negli anni precedenti, ne apprezza l'austerità ascetica e quel gusto per la solitudine che in fondo li rendono così simili ai suoi monaci; si dice dunque pronto ad accoglierli nella sua congregazione e poi, al loro rifiuto, a costituirli in gruppo autonomo come "poveri eremiti del Papa Celestino", francescani ma al di fuori dell'Ordine. L'unità francescana, che pur un teologo e uno spirituale della levatura di Pietro di Giovanni Olivi riteneva un bene supremo, andava in frantumi.
Forse il Papa non si rese conto delle conseguenze del suo gesto, che si discostava dalla linea che tutti i suoi predecessori avevano seguito nel corso del Duecento di tenere faticosamente insieme le diverse anime dell'Ordine francescano. La reazione dei confratelli fu durissima, il successore di Celestino, Bonifacio VIII, cassò, con gli altri atti del predecessore, anche questo e i "poveri eremiti di Papa Celestino" dovettero ancora fuggire, dando però sfogo nei loro scritti - il più alto dei quali è senz'altro la Historia septem tribulationum di Angelo Clareno - al risentimento nei confronti di quella successione bonifaciana che aveva drammaticamente capovolto le sorti della loro vicenda.
L'inserimento del pontificato celestiniano nelle tensioni interne all'Ordine francescano non è certo l'unico motivo di quanto accadrà in seguito; le linee critiche di frattura, nell'ambito romano, italiano e internazionale, sono diverse, ma il coinvolgimento di Celestino nella grande querelle tra francescani conventuali e spirituali, che solo apparentemente trovò soluzione con le drastiche decisioni di Giovanni xxii, appare per molti versi decisivo. A questo punto gli insoddisfatti del nuovo corso bonifaciano - sul piano religioso i francescani spirituali, nell'ambito romano i cardinali Colonna, nello scenario internazionale i fautori della causa francese e angioina - s'impadroniscono della figura di Celestino per oscurare e calunniare quella del successore, accusato di essere il protagonista occulto di un'abdicazione illegittima estorta con mezzi fraudolenti, persino responsabile di una morte violenta nella rocca di Fumone.
Alla Chiesa tutta politica e mondana di Bonifacio si contrappone la presunta Chiesa spirituale di Celestino. E a Celestino - già nel 1295-1296 da parte del domenicano provenzale Robert d'Uzès - si applicano le profezie relative a un Papa angelico; esse ancora una volta sono riconducibili a gruppi di spirituali italiani protetti da Celestino, vettori in Occidente di vaticini greci attribuiti all'imperatore Leone il Saggio che, nella traduzione latina, trasferiscono a un Papa le caratteristiche di un sovrano degli ultimi tempi, fautore del diritto e della giustizia. Il filone profetico del Papa angelico ha nella figura di Celestino un punto di partenza che si proietta nel futuro, attraversa il Trecento, influenza Cola di Rienzo, che ne è venuto a conoscenza dagli eremiti della Maiella e ne diffonde il contenuto nella Boemia di Carlo iv, ma compare ancora in Savonarola, arriva persino a Nostradamus e alla fine del Cinquecento allo pseudo-Malachia. Se Dante, anche per motivi personali, condanna la rinuncia di Celestino come atto di viltà, Petrarca nella sua difesa della vita solitaria lo esalta come gesto di suprema libertà evangelica. Ma Celestino continua a essere sino a tutto il Novecento il simbolo di una Chiesa diversa, profetica, non mondana ma tutta religiosa: dalle Lettere agli uomini di papa Celestino Vi (1946) in cui si trasfonde tutto lo slancio profetico e apocalittico dell'ultimo Papini, a L'avventura di un povero cristiano (1968), l'estremo libro dell'abruzzese Ignazio Silone.
Ormai però Celestino è divenuto uno schermo bianco sul quale proiettare i propri desideri e le proprie aspirazioni: il mito ha divorato la storia, per molti versi l'ha piegata, strumentalizzata, contraffatta. Celestino e Bonifacio non sono in realtà araldi di Chiese diverse, così come Pietro del Morrone non è né l'ingenuo vegliardo catapultato in scenari troppo grandi per lui né l'intrepido riformatore impedito dall'apparato mondano di una Curia tutta terrena. Sarà Bonifacio VIII, quel Papa Caetani che aveva dovuto evitare la strumentalizzazione della figura del predecessore a fini scismatici, a celebrare a Roma la sua messa funebre. L'avventura reale di quel "povero cristiano" che fu Celestino V è molto più bella del mito che l'ha voluto alterare: in definitiva quella di un outsider uscito dalle pieghe tenaci e profonde della millenaria storia religiosa e monastica italiana, una figura che sembra balzar fuori dalle pagine dei Dialogi di Gregorio Magno e che può vivere alla fine del vi secolo come nel cuore del xiii perché, nell'uno come nell'altro, animata dalla stessa ansia divorante e irrequieta della ricerca di Dio.

(©L'Osservatore Romano - 4 luglio 2010)

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