venerdì 20 agosto 2010

«Cristo c'è e io l'amo». La via della perfezione sacerdotale (Inos Biffi)


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I caratteri della spiritualità del prete diocesano delineati da Giovanni Colombo nel 1950

«Cristo c'è e io l'amo»
La via della perfezione sacerdotale


di Inos Biffi

Tra i vari scritti in cui Giovanni Colombo - cardinale e arcivescovo - elabora ed espone la teologia e la spiritualità del sacerdote diocesano, uno dei più articolati e completi è una lezione del 1950, che, mentre illustra i caratteri della direzione spirituale del presbitero, delinea i tratti coerenti e la forma propria della sua santità.
Possiamo intanto già ricordare una preziosa osservazione di Colombo, sull'importanza di una guida spirituale nello stato sacerdotale: "In certe ore della vita, poi, o di fronte a decisioni irrevocabili da prendere, o in mezzo a un'improvvisa tempesta, o nello strazio di un grande dolore, o nell'umiliazione della propria miseria, come è rassicurante, pacificante, confortante la parola illuminata, affettuosa, autorevole di chi conosce tutte le nostre ore, anche le più indifferenti, e conosce il senso della nostra vita intera!". Ma prosegue: "Essere maestro dei maestri e guida delle guide, in una scienza quale è quella di fare i santi, richiede tali doti di mente, di cuore, di equilibrio, di prudenza, di esperienza, e perciò anche di età, per cui i direttori spirituali del clero non si possono improvvisare".
In ogni modo - precisa Colombo - tali direttori devono trovare i loro riferimenti e il loro obiettivo orientamento nella spiritualità sacerdotale che nasce intrinsecamente dal sacerdozio ministeriale, cioè in virtù del sacramento dell'Ordine e del carattere che esso comporta, così che "l'esigenza di perfezione" sgorga "perennemente dal carattere sacerdotale".
La perfezione del sacerdote nasce come conformità a Cristo sacerdote unico ed eterno: contro la "falsa e perniciosa opinione" che la condizione del sacerdote ammetta "un compromesso tra santità e mondanità", si deve ritenere che "nessun obbligo alla perfezione è più stringente di quello che sorge dal sacramento dell'Ordine" e, quindi, "sia per la eminente dignità del suo carattere che lo configura a Cristo sacerdote unico ed eterno, sia per il suo ministero verso il corpo reale e il corpo mistico del Signore Gesù".
Si tratta di "non lasciar sonnecchiare la grazia dell'Ordinazione sacerdotale".
Affermato questo, Colombo aggiunge che tale perfezione sacerdotale riceve caratteristiche e tratti proprio dalla modalità diocesana del suo esercizio. Anche se non si devono per ciò escludere, in casi singoli, forme propriamente "religiose": "Il direttore spirituale conceda la più ampia libertà e assecondi i moti dello Spirito Santo". Ecco però, a seguire, lo schietto avvertimento: "Con questo (...) non s'intende spingerlo ad approvare gli entusiasmi effimeri e i fervori sentimentali di certi giovani sacerdoti nell'emettere voti. Il voto è cosa molto grande e molto grave, che richiede seria ponderazione ed equilibrio. Meglio non farne, che poi trasgredirli. Non avvenga anche tra il giovane clero come tra le ragazze: ci sono in giro assai più voti di vittima che anime veramente vittime, assai più voti di ubbidienza che spiriti veramente docili. Altrettanto si dica dell'iscrizione a Terz'Ordini o a sodalizi di perfezione".
Nessun obbligo alla perfezione "è più stringente di quello che sorge dal sacramento dell'Ordine". In particolare, la forma della perfezione a cui deve aspirare il sacerdote diocesano è logico sia quella propria del suo stato, cioè di prete "dell'ordine del vescovo", incardinato al servizio di una diocesi, in un territorio predeterminato. "Il Sacerdote, sia per la eminente dignità del suo carattere che lo configura a Cristo sacerdote unico ed eterno, sia per il suo ministero verso il corpo reale e il corpo mistico del Signore Gesù, "è obbligato a sorpassare nella virtù e nella scienza gli altri uomini, di mezzo ai quali fu scelto" (Pio XII)".
Quanto al modello sacerdotale: esso viene riconosciuto in termini avvincenti e luminosi nella figura di Cristo. Chi in quegli anni Cinquanta fu alunno liceale di Colombo, risente come in un'eco felice le sue lezioni su Gesù Cristo, e le appassionate esortazioni alla sua imitazione e alla sua sequela, mentre ricorda i testi da lui citati, come le vite di Gesù del Lagrange, del de Grandmaison, del Lebreton, o del Mauriac. Del resto, la sua critica letteraria mirava a ricercare e ritrovare nelle opere dei vari autori - poeti o romanzieri o saggisti - o la viva presenza, o la cocente nostalgia, o la tragica assenza di Gesù Cristo.
Terminando un saggio su La vedova Fioravanti di Moretti, a commento delle parole di don Dorligo, Colombo scriveva: "Cristo c'è e io l'amo". Vi si trova la sintesi dottrinale e pedagogica del cardinale sul sacerdote, per il quale Cristo è "sentito come una persona viva, vicina, concreta".
Possiamo aggiungere, a rimarcare ulteriormente la ricchezza di questo testo di Colombo, alcune osservazioni, piene di saggezza e di delicata discrezione, che sono poi un invito ai direttori spirituali, come là dove afferma, a proposito di sacerdoti inerti e stanchi: "Se un'affettuosa, paziente, intelligente direzione spirituale riuscisse (anche solo!), a tenerli in qualche modo ritti, sia pure su qualche binario morto, e impedire urti e deviazioni disastrose, quale incomparabile vantaggio per la Chiesa!"; aggiungendo: "E vantaggio non minore potrebbe ottenere presso qualche sacerdote dotato di acuto ingegno, ma lampeggiante e sbilanciato; ricco di affezioni e di passioni tumultuanti e non debitamente infrenate. Nascosta tra qualità invidiabili c'è qualche tara psichica squilibratrice che fa tenere il cuore dei Superiori continuamente all'erta. Su tipi simili, spesso, più che il ragionamento o l'imposizione autoritaria o la minaccia, giova la fiducia, l'affettuosa pazienza, l'amicizia cordiale, l'interessamento e il soccorso tempestivo".
La via alla perfezione sacerdotale è quindi Gesù Cristo. "La spiritualità d'ogni sacerdote non può essere se non cristocentrica. Quella del sacerdote diocesano bisogna che lo sia, se fosse possibile in un modo più intenso e più concreto". E "quando si dice che la via della perfezione sacerdotale è Gesù Cristo, non va inteso come un complesso di verità religiose, stupende ma astratte. Gesù va inteso come veramente e interamente è: persona viva, presente, vicina. Lo si può chiamare, certi di essere sentiti. Lo si può abbracciare nel nostro cuore, certi di non stringere un fantasma, un sogno, un ideale metafisico, ma una persona amante in carne ed ossa, in anima e divinità".
In particolare, il sacerdote coltiva la conoscenza di Cristo con "lo studio amoroso della Santa Scrittura, specialmente del Nuovo Testamento e delle più significative vite di Gesù; ecco l'approfondimento degli studi di Teologia; ecco le letture patristiche, ascetiche, mistiche, agiografiche". Solo con la lettura continuata e meditata di solide opere religiose "il sacerdote potrà dare alla propria mente una quadratura teologica e mettere nel proprio cuore la passione di una saporosa conoscenza di Gesù".
Celebrare con Gesù significa "consacrificarsi ogni giorno per la redenzione del mondo; pregare con Lui, significa saper dire con Lui al Padre in ogni circostanza concreta della vita: Fiat voluntas tua". Ecco, allora, i "due segni per conoscere se il fuoco d'amore per Gesù è chiasso verboso o è fiamma reale che arde: la preferenza assoluta su tutte le opere data alla preghiera, e l'accettazione gioiosa del sacrificio". O dei sacrifici, che Giovanni Colombo determina come sacrifici "connessi col servizio apostolico", qualunque esso sia; connessi "con il posto assegnato e con il lavoro comandato". L'apostolato, infatti, è "una funzione gerarchica e la gerarchia assegna a ciascuno un posto e fissa un lavoro", per cui "bisogna amare il proprio posto e tenerlo fedelmente"; e, infine, "connessi con l'obbedienza quando è contraria alle proprie vedute e aspirazioni, quando falcia in fiore le iniziative più vagheggiate e coltivate".
Colombo giunge a dire che "bisogna essere convinti che certe aspirazioni buone, certe idee feconde, certe iniziative ci sono suggerite da Dio non perché le abbiamo ad attuare fino al frutto, ma perché gliele abbiamo ad offrire sull'altare dell'ubbidienza in stato di fiore. C'è più gloria di Dio, c'è più vantaggio per la Chiesa in certe nascoste e solitarie rinunce imposte dall'ubbidienza, che non in certi clamorosi successi".
Un'ultima considerazione: "Il sacerdote con la sua opera mira a generare e a far crescere Gesù misticamente nelle anime. Perché l'opera sacerdotale possa attuare Gesù occorre che sia pura nell'intenzione e nello svolgimento: pura da ogni ricerca del proprio io. Ci sono, infatti, delle opere che sembrano di zelo apostolico e non lo sono in realtà, o almeno non lo sono integralmente. Sono quelle opere che cercano il bene, non per amore del bene, ma per farne un piedistallo al monumento del proprio io; opere nelle quali il fine è la conquista della stima, del plauso, di un posto onorifico".
Si può convenire che queste parole vengono da molto lontano; si sente in esse l'eco di altri tempi e di stile desueto. Giovanni Colombo le scriveva oltre mezzo secolo fa. La questione non è se siano ancora di moda - e infatti non lo sono - ma se siano vere.

(©L'Osservatore Romano - 20 agosto 2010)

1 commento:

Vatykanista ha detto...

"Bishops “need spiritual discernment and not just political calculation of the risk of the possibility of the message being received,” said Cardinal Marc Ouellet, the newly-appointed prefect of the Vatican’s Congregation for Bishops, in an interview this week."

http://wdtprs.com/blog/2010/08/card-ouellet-prefect-for-bishops-on-how-bishops-should-teach/