venerdì 5 novembre 2010

La Sagrada Familia di Antoni Gaudí: L'arte di far fiorire la pietra (Paolo Portoghesi)

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La Sagrada Familia di Antoni Gaudí

L'arte di far fiorire la pietra

di Paolo Portoghesi

La casa Milá, considerata da molti come il capolavoro di Antoni Gaudí (1852-1927) doveva sostenere sulla copertura una statua della Madonna; ma dopo la rivolta operaia del 1909 — la semana trágica in cui furono devastate decine di chiese — il committente pregò l'architetto di rinunciare all'impresa per paura che potesse indurre a violenze vandaliche.
Dopo questa rinuncia Gaudí perse ogni interesse per l'opera della quale affidò il completamento al suo allievo Jujól. Ormai aveva deciso di dedicarsi esclusivamente alla sua impresa maggiore, il tempio «espiatorio» della Sagrada Familia, ed era convinto che il suo sacrificio fosse indispensabile alimento di questa dedizione esclusiva ed espiazione per la vanità che egli attribuiva ormai a molte delle sue stesse imprese architettoniche.
«Tutto quello che possiamo fare a favore della chiesa — dichiarava a Martorell — ce lo dobbiamo imporre come un sacrificio, poiché il sacrificio è l'unica cosa che dia frutti. Una volta chiedendo un donativo, dissi al mio interlocutore: faccia questo sacrificio. Dato che l'interpellato rispose: “Con molto piacere, per me non è un sacrificio” insistetti perché aumentasse il donativo fino a sacrificarsi, poiché spesso la carità non è vera carità, ma vanità». In una riunione della giunta che soprintendeva alla costruzione della chiesa, dichiarava il 24 dicembre 1914: «Io non ho famiglia né obblighi; io non ho lasciato i miei clienti, ho solo rifiutato delle commissioni; non desidero lavorare per altri che per la Sagrada Familia, non desidero altro che questo(...) ciò che sto facendo è il mio dovere, nulla di più e io devo farlo».
Gaudí era entrato nel cantiere nel 1883 e in principio aveva seguito il progetto neogotico del Villar, dando però alle forme una qualità più intensa. Parallelamente allo sviluppo della sua personalità l'indirizzo stilistico era cambiato radicalmente e la facciata della Natività, l'unica quasi integralmente costruita prima della sua morte, fonde due dei più significativi momenti della sua ricerca artistica: la scoperta della tradizione africana delle torri fusiformi (che somigliano molto alle cime arrotondate del Montserrat) e il travolgente naturalismo tendente all'astrazione delle sue opere mature. Né va dimenticata la interazione tra lo sviluppo del progetto e gli studi relativi a un altro edificio religioso: la cappella di Santa Coloma nella colonia Güell (1898-1915) di cui fu realizzata purtroppo solo la bellissima cripta.
La facciata della Natività, con le sue quattro torri coronate da cuspidi colorate di una straordinaria bellezza plastica, è una delle immagini più forti e significative che il Novecento abbia consegnato alla storia dell'architettura; una sorta di fremito vitale la attraversa per effetto delle superfici vibranti, dei tratti di cielo visibili negli interstizi delle torri e del processo alterno di liquefazione e di indurimento cui è soggetta la massa lapidea. La decorazione che si raccoglie e concentra sotto le tre ghimberghe dei portali ricorda la porosità della roccia e la materia delle madrepore. Con questa plasticità densa e insieme sommessa Gaudí costruisce la sua Biblia pauperum, pensando a un osservatore che cerchi nel racconto non la perfezione della forma ma l'urgenza del logos e il ritmo coinvolgente del racconto. Le sculture, realizzate da una squadra diretta da Lorenzo Matamala, si inseriscono nella composizione con sorprendente naturalezza partecipando del carattere morbido e pulsante dell'insieme che ricorda i castelli di sabbia che i bambini costruiscono sull'arenile impastando acqua e sabbia.
Juan José Lahuerta — che ha dedicato a Gaudí una importante monografia, tutta centrata sulle vicende politiche della Liga Catalana e delle sue idee conservatrici che avevano utilizzato come simbolo la costruzione della Sagrada Familia — non rinuncia a giudicare ideologicamente la facciata della chiesa: «È soltanto una inverosimile accozzaglia di simboli vuoti, la cui vacuità deve essere esorcizzata con le lettre, le parole e i frammenti di testi sacri che percorrono tutta la facciata. L'immenso muro della facciata della Natività che sorge, in mancanza del resto del tempio, in mezzo a una vastità semideserta, eleva le sue due facce come un inatteso emblema del silenzio ma, già lo vediamo, di un silenzio banale. E non abbiamo forse già suggerito che proprio quella immensa banalità è quello che, al di là di tutti i suoi drammi, rende utilizzabile il tempio?».
Dove Lahuerta vede una inverosimile accozzaglia chi scrive (e non è il solo) vede il felice abbandono dell'anima religiosa a un immaginario infantile come punto di arrivo per una comunicazione diretta e coinvolgente e la consapevole rinuncia all'aristocratico simbolismo, tanto più digeribile dalla critica ideologica di derivazione marxista, che Gaudí aveva praticato nelle opere giovanili e in particolare nel palazzo di Eusebio Güell.
A chi accusava Gaudí di voler costruire l'ultima delle cattedrali, rispondeva serafico che non sarebbe stata l'ultima, ma «la prima, di una seconda serie».
La Sagrada Familia negli ultimi decenni è inaspettatamente cresciuta, anche se è ancora lontana dal suo auspicabile compimento. Dopo un lungo intervallo è stata costruita una seconda facciata laterale, quella dedicata alla Passione, della quale Gaudí aveva lasciato diversi disegni, uno dei quali, bellissimo, eseguito su carta vegetale, fu trovato nelle sue tasche dopo la morte. Secondo lui «contrariamente alla ricca facciata della Nascita, ornata, turgida», doveva essere «dura spoglia, fatta come d'osso».
Interpretata abbastanza fedelmente nelle sue linee architettoniche e nelle quattro torri cilindriche, la nuova facciata è stata arricchita con gruppi e figure scultoree affidate a un unico artista: Josep Maria Subirachs, che ha abbandonato quella continuità e complementarità tra architettura e decorazione che caratterizza la facciata della Natività per inserire nella intelaiatura architettonica degli episodi, staccati l'uno dall'altro, che spiccano per contrasto rispetto alla maglia strutturale. Lo stesso programma iconologico è stato modificato, e il linguaggio crudo e legnoso di Subirachs, alla ricerca di una forzata stilizzazione, ha separato ciò che nel disegno originario era organicamente unito. Lo stesso Gaudí, d'altronde, aveva previsto uno scarto tra la parte del tempio da lui costruita e quella che inevitabilmente sarebbe stata affidata ai continuatori: «So già — aveva dichiarato — che il gusto personale dei miei successori condizionerà i lavori della Sagrada Familia. Ma questo non mi dispiace. Credo che sarà a beneficio del tempio (...) I grandi templi non sono mai stati opera di un unico architetto».
Fortunatamente la realizzazione dello spazio interno delle navate ha seguito fedelmente il modello tridimensionale sopravvissuto raggiungendo una qualità spaziale davvero mirabile creata dalla ricchezza delle forature delle pareti e della copertura che illuminano e smaterializzano la struttura mettendo in rapporto terra e cielo con inedita geniale forza plastica. La tradizione gotica, rivissuta criticamente, si sposa con una ispirazione ellenica e le forme appaiono compresse dal peso e nello stesso tempo tese, stirate, come tendini e muscoli di un corpo vivente.
L'organismo della nuova «cattedrale» nasce infatti dalla volontà di applicare in modo creativo due leggi della natura: la forza di gravità e il processo della crescita e dello sviluppo proprio degli esseri viventi. Il modello di verifica del comportamento statico creato per la cappella di Santa Coloma, fatto di blocchi di gesso appesi a un sistema di fili metallici, nella sua immagine spettrale rivela la tensione verso il raggiungimento di un obiettivo remoto e ambiziosissimo che nella Sagrada Familia raggiunge il risultato più convincente: continuare la creazione divina, spogliarsi di ogni legame con il tempo e lo spazio per imparare direttamene dalla creazione, appropriandosi del suo respiro universale ed eterno, far vivere e fiorire la pietra, far respirare la materia e far esplodere la luce. Louis Sullivan, grande compagno di strada, vedendo le immagini del tempio che stava sorgendo parlò di «spirito simbolizzato nella pietra»
Per iniziativa di Etsuro Sotoo — un architetto giapponese che si è convertito al cattolicesimo ed è diventato il principale animatore del cantiere riaperto della Sagrada Familia — è stato avviato un processo di beatificazione dell'architetto catalano. Non entriamo nel merito di una questione così ardua e complessa; ma certo la costruzione del tempio sembra essere stata, negli ultimi anni della vita di Gaudí, una «occupazione da santi» nel senso che a queste parole ha dato un grande poeta cristiano, Thomas Stearns Eliot, che in Dry Salvages ha scritto: «Esplorare le viscere o le tombe o i sogni; tutti questi son consueti / Passatempi e rubriche di giornali (...) / La curiosità degli uomini indaga il passato e il futuro / E s'attiene a quella dimensione, ma comprendere / Il punto di intersezione del senza tempo / Col tempo, è una operazione da santi (...) e nemmeno una occupazione ma qualcosa che è dato / E tolto, in un annientamento di tutta la vita nell'amore / Nell'ardore, altruismo e dedizione». Difficile descrivere meglio l'atteggiamento di un uomo che nella realizzazione della sua opera ha cambiato modo di vivere, di pensare, di alimentarsi, di vestirsi, fino a immedesimarsi nella povertà che — diceva — «genera maggiore eleganza, perché l'eleganza non è mai né ricca né opulenta. Nell'abbondanza e nelle forme eccessivamente complicate non ci sono né eleganza né bellezza: solo confusione».
Il punto di intersezione tra il tempo e il senza tempo: questo sembra essere il segreto del tempio barcellonese che appartiene al suo tempo ma è impregnato di passato e di futuro, sintesi di tentativi, reiterati nel tempo storico, di costruire l'involucro trasparente dei «templi viventi» di cui parla san Pietro, profezia di una riunificazione dei cristiani nella fede in Cristo, in cui si riverbera il sogno di Benedetto xvi, e nello stesso tempo espressione del respiro cosmico di un edificio destinato a svolgere il suo compito di faro della fede in un mondo globalizzato in cui culture ed etnie diverse devono convivere nel reciproco rispetto e nella pace.
Certo un'opera d'arte esprime una individualità esasperata e può essere utile riflettere su quanto in proposito scriveva Bernanos: «Se l'opera del santo è la sua stessa vita, ed egli è tutto nella sua vita, l'uomo di genio è così poco presente nella sua opera, che essa è quasi sempre una testimonianza spietata contro di lui. Se egli attua quella meraviglia di ispirazione e di equilibrio che è l'opera d'arte compiuta, è il più sovente, quando la divina carità non vi collabori, per una sorta di mostruosa specializzazione che esaurisce tutte le potenze dell'anima e la lascia divorata d'orgoglio in un egoismo disumano». Riflessione profonda e sensibile, che pure lascia lo spiraglio illuminante del ruolo possibile della «divina carità».

(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2010)

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