martedì 8 giugno 2010

Anno Sacerdotale, preti e laici: "una trama sottile". Intervista a Franco Miano (Sir)


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Preti e laici: "una trama sottile"

Si concluderà ufficialmente l’11 giugno, solennità del Sacro Cuore di Gesù, l’Anno Sacerdotale indetto dal Papa lo scorso 19 giugno. Per Franco Miano, presidente nazionale dell’Azione Cattolica italiana, esso ha costituito “un’occasione privilegiata di preghiera e riflessione sul sacerdozio”. Nel corso del convegno delle presidenze diocesane (Roma 30 aprile - 2 maggio) l’Ac ha diffuso una lettera ai presbiteri, "collaboratori della nostra gioia", per esprimere loro, rammenta il presidente, “tutta la nostra riconoscenza per il bene che costantemente offrono alla Chiesa”. Gratitudine, invito a perseverare e incoraggiamento sono stati formulati nel “Messaggio dei vescovi italiani ai sacerdoti che operano in Italia”, diffuso l’8 giugno dalla Cei. A Miano, che guida l’Ac dal 2008, il SIR ha posto alcune domande.

Dal punto di vista “laicale” quale primo bilancio trarre dell’Anno Sacerdotale?

“Esso non ha creato nulla di nuovo, ma ha indubbiamente contribuito a rammentare ai laici l’importanza e la bellezza dell’apporto dei sacerdoti per la loro vita, tutto il bene che essi offrono all’intera Chiesa. I laici impegnati in parrocchia, movimenti o associazioni collaborano costantemente con i preti; tuttavia il non dare tutto per scontato e l’accendere i riflettori sul sacerdozio è utile a portare alla luce e valorizzare ciò che già esiste, ma forse non è abbastanza conosciuto e apprezzato. La conclusione dell’Anno Sacerdotale non intende certo mettere la parola ‘fine’ a questa riflessione ma piuttosto segnarne un nuovo inizio”.

L’Ac ha vissuto e continua a vivere i legami tra laici e presbiteri in una duplice dimensione: comunione che si nutre di amicizia spirituale e corresponsabilità del servizio alla missione della Chiesa…

“Due aspetti decisivi. L’amicizia spirituale tra laici e sacerdoti è una trama sottile ma fondamentale che regge i diversi cammini presenti nella vita della Chiesa. Senza questa amicizia che fa coltivare insieme i grandi ideali e innerva l’impegno comune per perseguire le mete più alte dell’esistenza, tutto diventerebbe asettico e formale. Ad essa si unisce il senso della corresponsabilità, idea sviluppatasi con forza a partire dal Concilio che, nel rispetto dei carismi e dei ministeri propri di ciascuno ha fatto crescere la convinzione che la Chiesa è opera del Signore ma richiede il contributo di tutti: uno slancio in più richiesto ad ognuno in risposta alla propria vocazione”.

Quale il ruolo del prete in una comunità educante?

“Nella vita di ogni esperienza ecclesiale egli ha anzitutto il compito di additare le grandi mete che discendono dal Vangelo; un’indicazione di ideali che deve coniugarsi con la capacità di accompagnare la vita delle persone. L’educazione non è una tecnica né il risultato di competenze o metodi particolari; essa si inserisce in una dimensione di relazione. Proprio la relazione è il veicolo della testimonianza e della ricerca di significato che ciascuno compie, e il prete deve essere anzitutto un testimone di fede e di umanità: solo così può affiancare il cammino delle persone che gli sono affidate coniugando, appunto, Vangelo e vita quotidiana, suscitando in loro la speranza – perché educare significa amare il futuro – e testimoniando l’amore – perché educare è anzitutto una scelta del cuore –. Educare è prima di ogni cosa educare alla fede, cioè educare alla vita ed educare la vita”.

Come possono i preti offrire ragioni di senso e di speranza ai giovani?

“Questo è uno dei compiti sacerdotali più importanti e delicati, e si realizza principalmente testimoniando la bellezza di una vita cristiana e, quindi, di una vocazione vissuta nella pienezza e nella gioia, cioè di una vita che ha un senso. Oggi i giovani fanno spesso fatica a operare scelte di lungo periodo, che valgano per sempre. Compito del sacerdote è mostrare che ciò è possibile; la testimonianza delle ragioni di senso e di speranza supera anche le difficoltà e i confini tra le generazioni. Ma questo ‘essere guida’ richiede ai preti un grande investimento di tempo, ossia la capacità di ‘perdere tempo’ con i giovani ascoltandoli, accogliendoli e dialogando con loro”.

Quale contributo possono offrire, a loro volta, i laici alla formazione e alla testimonianza dei preti?

“Un contributo decisivo se i laici sono tali fino in fondo e, come il Concilio ha spesso ricordato, riescono a portare nella vita della Chiesa la vita reale di tutti i giorni. In questo senso, grazie al loro tramite, la formazione dei preti non rimane asettica ma si mette in relazione con il vissuto quotidiano della gente. Il ministero cui sono chiamati i sacerdoti richiede infatti una conoscenza della vita a tutto campo, conseguibile su un duplice binario. In un primo tempo attraverso una maggiore presenza dei laici nei seminari e nelle facoltà teologiche con spazi più ampi da dedicare alle questioni legate al mondo laicale; successivamente attraverso un costante e reciproco esercizio di accompagnamento all’interno del quale i laici immettano e condividano il senso vivo dei problemi che vivono. Una dimensione relazionale che spinge inevitabilmente alla testimonianza: se il prete sa cogliere ciò che più tocca la gente e ne attraversa il vissuto, se in altre parole è ‘esperto di umanità’, la sua testimonianza diventa più credibile ed efficace”.

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