giovedì 3 giugno 2010
«Popielusko-Romero: due destini paralleli» (Paolo D'Andrea)
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Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:
«Popielusko-Romero: due destini paralleli»
Paolo D'Andrea
Domenica prossima, mentre Benedetto XVI sarà ancora impegnato nella sua visita apostolica a Cipro, sulla piazza Maresciallo Pilsudski di Varsavia il prefetto della Congregazione per le cause dei santi Angelo Amato proclamerà beato Jerzy Popieluszko, il sacerdote 37enne trucidato nel 1984 da un commando di oscuri apparatcnik dei servizi di sicurezza della Polonia comunista.
La data della beatificazione coincide con la Giornata della gratitudine stabilita dalla Chiesa polacca per ricordare la riconquista dell’indipendenza e della libertà nazionale nel 1989. Nella stessa piazza Pilsudski si radunarono nel giugno del 1979 oltre un milione dei polacchi giunti per la messa celebrata da Papa Giovanni Paolo II nel suo primo pellegrinaggio nella madrepatria, quello che tutte le biografie ufficiali celebrano come l’inizio concreto dell’opera di sgretolamento del blocco comunista da parte del pontefice venuto dall’Est. Per di più, il riconoscimento delle virtù eroiche di padre Popieluszko è stato certificato da papa Benedetto XVI lo stesso giorno – lo scorso 19 dicembre – in cui l’analoga procedura è stata portata a compimento riguardo alla causa di beatificazione del grande Papa polacco.
E intorno alla beatificazione di padre Jerzy si affollano implicazioni simboliche di prim’ordine.
L’ascesa agli altari del prete martire rappresenta infatti per molti una specie di anteprima di quella di Giovanni Paolo II, che a detta di alcuni analisti potrebbe essere rallentata dalle vicende controverse – a partire dai legami dell’inner circle wojtyliano con il fondatore dei Legionari di Cristo Marcial Maciel – emerse con particolari inquietanti negli ultimi mesi.
Riguardo alla lunga era wojtyliana, la vicenda in vita e post mortem di Popieluszko – compreso il suo rapido itinerario sulla via della beatificazione – offre chiavi di lettura interessanti soprattutto nel confronto con quella di un altro uomo di Chiesa ucciso qualche anno prima, dall’altra parte del mondo: monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, ammazzato la sera del 24 marzo 1980, mentre celebrava messa.
Nei destini di Jerzy e Oscar Arnulfo, così diversi, così lontani, si registrano punti di contatto, assonanze e divergenze più che eloquenti. Le povere vicende individuali dell’uno e dell’altro sono diventate la faglia fragile su cui si sono scaricate le tensioni umanamente insostenibili del mondo diviso in blocchi, prima del grande showdown dell’89.
Jerzy, cresciuto in una famiglia rurale da cui riceve una fede solida e ardente e un’intensa devozione mariana, è un giovane prete di salute cagionevole che nel 1980 finisce quasi per caso parrocchia di San Stanislao Kostka, a Varsavia, dove entra a contatto con gli operai delle acciaierie, e diventa cappellano e consigliere spirituale di Solidarnosc. Dopo la proclamazione della legge marziale (13 dicembre 1981) inizia a celebrare le “Messe per la patria”, dove decine di migliaia di fedeli accorrono per sentire le sue omelie veementi, che dagli organi del partito vengono considerate come veri comizi politici. Il 19 ottobre 1984, la sua automobile viene fermata da una squadra di appartenenti ai reparti speciali del ministero degli interni: il prete viene massacrato di botte, incaprettato e buttato in un bacino artificiale vicino alla Vistola, con un sacco pieno di sassi legato a una gamba. Oscar Arnulfo, nel Salvador dilaniato dalla guerra civile degli anni Settanta, non appare implicato in forme di militanza diretta come quella che lega Popieluszko al movimento sindacale di Solidarnosc.
Le ricerche più dettagliate degli ultimi anni – a partire dai libri dello storico Roberto Morozzo della Rocca – lo raccontano come uno che aveva seguito docilmente la strada delle riforme conciliari, senza abbracciare messianismi politici. Ma il Salvador di quegli anni è una periferia impazzita e stravolta dell’Occidente. Lì l’oligarchia rinfaccia a preti e religiosi di aver risvegliato tra le masse contadine le più elementari attese di riscatto. Le lunghissime omelie infuocate con cui l’arcivescovo descrive il blocco di potere che strangola il suo popolo sgorgano dalla stessa fede in cui è cresciuto e è diventato prete. Vanno a sentirle anche i giornalisti, le lanciano in tutto il mondo, e così qualcuno dell’oligarchia pensa di risolvere la questione alla radice. Mandano un killer di buona mira che con una pallottola esplodente gli spacca il cuore proprio mentre Romero sta per consacrare il pane e il vino, sull’altare della cappella dove sta dicendo messa. Dopo la sua morte, il suo successore, Arturo Rivera Damas, richiamerà tutti a evitare di «convertire in un mito il suo ricordo» e a non permettere che Romero «si trasformi in bandierina politica di bande, partiti e organizzazioni».
In effetti, questo pericolo incombe su ambedue. Il polacco può trasformarsi in avatar dell’epopea dell’89 e della lotta al totalitarismo comunista, così come il salvadoregno può essere ridotto a gadget della retorica anti-yankee. Sta di fatto che le potenziali riserve sui rischi di strumentalizzazione hanno avuto ripercussioni diverse sui rispettivi processi di beatificazione. La causa di beatificazione di Popieluszko è iniziata in Polonia nel febbraio del 1997 ed è arrivata Oltretevere per la sua fase romana nel maggio 2001. Dal 1990 e fino al 2007 è stato segretario del dicastero vaticano per le cause dei santi il polacco Edward Novak, molto vicino all’Appartamento pontificio di allora.
Popieluszko è stato riconosciuto martire in odium fidei, e questo ha accelerato il processo (per la beatificazione dei martiri non è richiesto l’accertamento canonico di un miracolo realizzato per loro intercessione). Non hanno fatto problema neanche alcuni elementi controversi relativi alle circostanze della morte, come quelli riportati nell’ottimo volume di Giovanni Barberini L’ostpolitik della Santa Sede (Il Mulino, 2007).
Barberini ricorda che durante un perquisizione nell’appartamento del sacerdote fu rivenuto anche materiale esplosivo «probabilmente collocato dalla stessa polizia politica».
Il primate di Polonia Jòzef Glemp aveva cercato inutilmente di convincere Popieluszko a trasferirsi temporaneamente a Roma, presentendo il pericolo. Il barbaro assassinio rese ancor più difficili i già complicati tentativi per scongiurare bagni di sangue o interventi di forze straniere che il cardinale Glemp conduceva dialogando anche con il generale Jaruzelski, il quale – fa notare Barberini – «mai avrebbe voluto» un delitto così destabilizzante. Lo stesso Glemp ancora due anni fa ripeteva che «nonostante i processi, la storia di padre Popieluszko non è del tutto chiara: alcuni particolari sono oscuri».
Intorno alla causa di Romero, invece, cautele legittime e malcelati ostracismi producono un effetto paralizzante. Esiste ormai tutta una letteratura sugli ostruzionismi messi in atto da cardinali latinoamericani di Curia – a partire dal defunto Alfonso Lòpez Trujillo – per rinviare sine die la beatificazione del vescovo ucciso sull’altare, a cui è finora rimasto precluso l’accesso alla “corsia preferenziale” prevista per i martiri.
Appare evidente il disegno accanito di non fornire spazi di manovra ai residui settori ecclesiali “liberazionisti” che hanno già canonizzato «san Romero de America» come loro patrono. Ma forse tanta resistenza ha anche a che vedere con quanto da tempo va ripetendo Gregorio Rosa Chàvez, che di Romero fu vescovo ausiliare: «La Chiesa – spiega – ha canonizzato martiri del comunismo e del nazismo. E padre Romero, come tanti altri sacerdoti dell’America Latina, è stato ucciso da persone che si dicevano cristiane e che vedevano in lui un nemico dell’ordine sociale occidentale. Romero è un martire della società occidentale cristiana. Riconoscere questo sarebbe una novità».
© Copyright Il Secolo d'Italia, 3 giugno 2010
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