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La speranza oltre il muro
Alla vigilia del sinodo sul Medio Oriente, due libri sul dramma dei cristiani
Aldo Maria Valli
«Non finiremo mai di ringraziare il Signore per il dono grande della comunione che ci lega a tutti voi che amate la Terra Santa». Chi parla così è monsignor Fouad Twal, patriarca latino di Gerusalemme, nella prefazione a un libro che fa aprire gli occhi sul dramma palestinese e che, in occasione del sinodo dei vescovi del Medio Oriente (da domani al 24 ottobre) rappresenta una testimonianza sicuramente dura ma anche molto vera e concreta. Il libro è Kairòs Palestina. Un momento di verità, e nasce dalla collaborazione fra le Edizioni Messaggero di Padova e le Edizioni Terra Santa di Milano (120 pagine, 10 euro). Libro duro, dicevo, perché non gira intorno alle questioni e perché espone alcune tesi senza preoccupazioni diplomatiche.
Il testo nasce dalle sofferenze del popolo cristiano in Terra Santa, sofferenze che trovano espressione nelle voci di sacerdoti, religiose e religiosi impegnati nella campagna Ponti e non muri di Pax Christi Italia. Si tratta di voci, fanno notare i curatori dell’opera, che a tratti possono apparire “sopra le righe” per noi spettatori lontani e spesso distratti, ma rendono bene il clima, il contesto, le difficoltà e il dolore che i nostri fratelli cristiani di Terra Santa si trovano a vivere ogni giorno.
I cristiani di Palestina chiedono una cosa che Raniero La Valle, nell’introduzione, definisce «realistica e possibile»: il ritiro di Israele dai territori occupati, così da consentire di fare spazio a due popoli nella stessa terra, rivendicata da entrambi, con uno statuto internazionale per Gerusalemme e la garanzia di una condivisione della città santa. È quanto chiede da tempo anche la Santa Sede, in compagnia di molti governi e organizzazioni internazionali. Perché non si procede? Il problema sta nel fatto che il blocco non è solo politico ma religioso.
Anzi, è politico, ma su base religiosa. C’è chi, interpretando in un certo modo la Bibbia, sostiene che questa terra benedetta e tormentata può essere solo degli ebrei e non di altri. Il che giustifica tutto, anche il fatto che un popolo tenga un altro popolo sotto il tallone della dominazione, costringendolo di fatto a vivere in carcere.
Il problema è dunque questo fondamentalismo religioso, e finché non sarà chiaro che questo è il nodo da sciogliere non si troveranno soluzioni adeguate.
Come dice Twal nella citazione iniziale, la solidarietà dei cristiani di tutto il mondo è importantissima.
I nostri confratelli non devono sentirsi soli nel chiedere giustizia e nel rivendicare i diritti di libertà e uguaglianza. L’arma del cristiano è l’amore, ed è questa che va usata, senza stancarsi.
Amore non vuol dire buonismo, non vuol dire accettazione dell’esistente.
Amore vuol dire anzi fantasia nel trovare nuove strade di impegno. Ma senza mai cedere alla violenza che tutto distrugge e che fa nascere soltanto nuova violenza. È possibile rispondere con la non violenza a una violenza continua? Abuna Raed Abushalia, parroco di Taybeh, unico villaggio interamente cristiano nei territori palestinesi occupati, sostiene di sì. «Noi – dice – possiamo realmente ridurre l’esercito israeliano a una scatola di cartone attraverso la nonviolenza.
Gli israeliani hanno l’esercito più forte del mondo, ma i suoi capi temono la nonviolenza. Quando il popolo palestinese utilizza la nonviolenza come metodo di resistenza, l’esercito israeliano non può misurarsi con esso». Un sogno? No, dicono i promotori di Kairòs Palestina. L’importante è continuare a gridare la verità, contro l’ingiustizia.
I segni di speranza non mancano e sono raccontati in un altro libro proposto in occasione del sinodo: Ponti, non muri, del giornalista Giorgio Bernardelli (Edizioni Terra Santa, 130 pagine, 14 euro), racconto dei tanti “cantieri di incontro” fra israeliani e palestinesi, luoghi, scrive Bernardelli, molto meno visibili rispetto a quelli di chi costruisce muri e barriere, eppure luoghi veri, che esistono e danno frutti. La domanda finale è quella che un po’ tutti si pongono: ma se tante persone di buona volontà si incontrano e lavorano per la convivenza pacifica, perché il conflitto va avanti e non si vede una fine? Bernardelli è molto chiaro. Primo: fra le iniziative pacifiste ce ne sono di autentiche ma ce ne sono molte che restano in superficie e servono solo a garantire emozioni facili senza toccare i problemi. Secondo: non basta la buona volontà, occorrono mediatori veri, capaci di fare questo lavoro con saggezza e reale equilibrio. Terzo: occorre diffidare di quelli che propongono calendari per la riconciliazione. Il percorso è complicato e inevitabilmente lungo. Semplificare non si può e non è utile a nessuno. «Essere custodi della speranza nel tempo della disillusione», questo conta. E in questo impegno i cristiani, tutti i cristiani, devono essere in prima fila.
© Copyright Europa, 9 ottobre 2010 consultabile online anche qui.
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