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Il Papa, l’agricoltura, gli stili di vita
La vecchia fatica e il nuovo compito
Marina Corradi
A qualcuno sarà sembrato inattuale il richiamo di Benedetto XVI a una rivalutazione del lavoro nei campi; al ritorno addirittura dei giovani all’impresa agricola. Forse i più vecchi, ascoltando l’Angelus, avranno sussultato: i campi? Ma se noi da giovani dai campi siamo scappati, se siamo emigrati e abbiamo accettato qualsiasi manovalanza, pur di sottrarci a quel giogo. E ora che i nostri figli e nipoti vivono sul web e frequentano master dai complicati nomi in inglese, ora che la ricchezza, quella vera, viaggia sulle Borse di Tokyo e New York, e oscilla e si alza o svanisce quasi più virtuale che reale, adesso la Chiesa ci dice che dobbiamo rivalutare la vecchia fatica della terra?
Le parole del Papa cadono nel giorno di una ricorrenza, il giorno del Ringraziamento, di cui la grande maggioranza degli italiani ha perso la memoria. Ringraziamento del raccolto – dei granai pieni, del pane. Quanto arcaico sembra, a noi utenti di ipermercati, questo ricordo. Remote reminescenze, sui libri di scuola, di carestie; roba di altri evi, e altri mondi. Un adolescente di Milano o Parigi difficilmente ha mai conosciuto la fame; compra, in magazzini traboccanti di merce, vestiti fatti in Cina o a Taiwan, per pochi euro; e spesso ha già in tasca un Iphone che vale la metà dello stipendio di un operaio. Eppure, anche nell’apparenza di abbondanza delle nostre città sotto Natale qualcosa ci avverte che la china dei consumi del Primo mondo è insostenibile.
Fumi di discariche e maree nere ci passano davanti come fantasmi nei telegiornali, come il lato oscuro del nostro benessere. Ma, anche, una nuova inimmaginata povertà lambisce noi, nelle fabbriche chiuse per la delocalizzazione, nella disoccupazione dei figli, a mani vuote con tutti i loro master. E cos’è questo freddo vento di stenti che si annuncia, e stringe i cordoni dei sistemi sanitari pubblici verso antiche miserie in un’Europa prossima ventura, in cui saremo in troppi a esser vecchi?
Ciò che ha detto il Papa all’Angelus non è che un coerente ritorno alla Caritas in Veritate, dove scriveva: «L’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune».
Non basterà produrre, e produrre ancora, cercando aree a più basso costo di manodopera, usando di maestranze disposte a tutto, ignorando scorie e veleni abbandonati. Non basterà vendere, incentivare, consumare. Prima o poi questi stili di vita si mostreranno insostenibili. E non solo in quel remoto mondo di poveri dove brucia «lo scandalo di diseguaglianze clamorose», come disse Paolo VI. La crisi già si è mostrata ai manager della City, si è ripercossa come un’onda su aree industriali occidentali che avevano dimenticato cosa fosse la disoccupazione. Occorre puntare, ripete il Papa, su un nuovo sviluppo sostenibile, su un nuovo equilibrio tra industria, servizi e agricoltura. Occorre reinventarsi l’economia mondiale: oltre la logica del puro profitto. In questo senso Benedetto XVI ha indicato una rivalutazione del lavoro nei campi; come una svolta culturale che sia segno di tempi di risveglio, e della sensibilità a un bene comune. A questa terra di cui viviamo e mangiamo, alla terra donata e abbandonata; alla fatica non virtuale di preparare un raccolto, alla misura profondamente umana di quella attesa.
"Bene comune"? Anche questa espressione suonerà forse strana a una generazione educata nell’individualismo e nel mito dell’avere. Che cose singolari dice il Papa, penseranno in molti, chini sul pc a compulsare sofisticate tesi di laurea in economia e finanza. Eppure quello della Chiesa, da Paolo VI a Giovanni Paolo II a Benedetto, è uno sguardo non miope, che vede più lontano degli strateghi e semidei di Wall Street. Sguardo tenace, e materno nel ripetere, come nella Gaudium et spes, che il primo capitale da salvaguardare, in verità, è l’uomo.
© Copyright Avvenire, 16 novembre 2010
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