mercoledì 30 giugno 2010

«Evangelizzazione: l’Occidente torna terra di frontiera» (Paolo D'Andrea)


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«Evangelizzazione: l’Occidente torna terra di frontiera»

Paolo D'Andrea

La Basilica di San Paolo fuori le mura è luogo di grandi annunci. Lì, nel gennaio del 1959, Giovanni XXIII confidò la sua idea di convocare «un Concilio ecumenico per la Chiesa universale».
Sempre lì, la sera di lunedì, celebrando i primi vespri della solennità dei santi apostoli patroni di Roma Pietro e Paolo, Benedetto XVI ha reso pubblica la sua intenzione di istituire un nuovo dicastero vaticano: un pontificio Consiglio con il compito precipuo di «promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede», ma che adesso «stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di eclissi del senso di Dio».
Vasto programma, quello di ri-evangelizzare nientemeno che l’Occidente scristianizzato. Chissà se basta un nuovo dicastero curiale senza portafoglio, sia pur affidato alla verve brillante di monsignor Rino Fisichella. Il rischio di trasformare il nuovo organismo nell’ennesimo strumento di represse supponenze clericali può comunque essere aggirato: basta tener presenti i termini reali e attuali del rapporto tra cristianesimo e modernità occidentale. È sufficiente riconsiderare il segmento di tempo iniziato dopo la seconda guerra mondiale per riconoscere che negli ultimi decenni tale rapporto è stato inquadrato e declinato secondo accenti e criteri diversi. Nell’Europa uscita distrutta da quel mattatoio bellico, Pio XII aveva potuto coltivare il grande disegno della Civiltà cristiana, offrendolo a tutti come baluardo spirituale del “Nuovo” Occidente, presidio di libertà davanti agli orrori dei totalitarismi atei e neo-pagani. In tale prospettiva l’Occidente «era visto come il luogo in cui la Chiesa ha formato la “civiltà cristiana” e da cui questa si era irradiata nel mondo, ed era valutato, quindi, per il suo rapporto di fedeltà o di infedeltà verso le sue radici cristiane» (Antonio Acerbi, Pio XII e l’ideologia dell’Occidente). Eppure già nel cuore della grande mobilitazione pacelliana, gli spiriti più avvertiti coglievano che proprio dietro le scivolate trionfaliste e lo sfoggio delle adunate militanti era in incubazione un nuovo, sconosciuto processo di deforestazione della memoria cristiana. In Francia prima che altrove, già tra le due guerre si erano accorti che le antiche terre cristiane d’Europa erano tornate a essere terra di missione. In Italia una simile percezione spinse nel 1954 don Giussani a lasciare brillanti prospettive di carriera ecclesiale per andare a insegnare al Berchet, il liceo della borghesia milanese. Ma anche in Germania, già nel 1958, il 31enne Joseph Ratzinger nei suoi articoli definiva un «inganno» statistico il cliché dell’Europa cristiana: «Quest’Europa, cristiana di nome» scriveva allora il giovane teologo «è ormai da quattrocento anni culla di un nuovo paganesimo, che cresce senza sosta nel cuore stesso della Chiesa e minaccia di demolirla dall’interno». Un processo di dissoluzione che non può essere accollato in primis all’illuminismo, ai massoni e ai cultori del libero pensiero, e neanche all’ateismo dei regimi comunisti, perché si tratta innanzitutto di un «paganesimo intraecclesiale» che segna i popoli occidentali di antica cristianità, dove «dal Medioevo, con l’identificazione di Chiesa e mondo», la Chiesa è diventata «una necessità di fatto politico-culturale» un «dato a priori della nostra esistenza specificamente occidentale», scontato quanto ridondante, tanto che «quasi nessuno più crede del tutto che da questo dato antecedente politico-culturale molto casuale di “Chiesa” dipenda, ad esempio, la salvezza eterna».
La speranza accesa dalla riforma conciliare era anche l’attesa di una semplificazione che nel riproporre le sorgenti della vita di fede, liberasse la forma Ecclesiae dalle incrostazioni del tempo – a partire da una malintesa identificazione tra cristianesimo e Occidente - e tornasse a mostrare il volto universale e attraente della Chiesa anche nelle terre di antica evangelizzazione. Nel post-Concilio, invece, divennero palesi e conclamati gli effetti della deforestazione della memoria cristiana che fino a allora erano stati nascosti dall’apparente “tenuta” ecclesiale. Mentre tra le macerie circolavano anche grotteschi «trionfalismi» di nuovo conio, come quelli coltivati dai teologi a la page, convinti di cavalcare lo spirito del tempo.
La lunga e complessa era wojtyliana ha inquadrato il rapporto con l’Occidente nella strategia della cosiddetta Nuova Evangelizzazione. Negli anni del pontificato polacco hanno vissuto una lunga incubazione le varie forme di ideologia “occidentalista” attecchita anche dentro la Chiesa: quelle per cui l’orizzonte della presenza dei cattolici nella vita sociale è la mobilitazione militante in difesa dei valori giudeo-cristiani individuati come matrice cultural-spirituale della civiltà occidentale. Tale prospettiva, nelle sue declinazioni più strumentali, ha subito bruschi altolà. Come avvenne in occasione della prima guerra del golfo, quando la posizione critica assunta da Wojtyla davanti all’intervento militare a guida anglo-americana provocò le rimostranze degli emergenti circoli neocon, che accusarono la Chiesa di Roma di «tradire l’Occidente» in nome del sud del mondo. Sta di fatto che il ruolo attribuito al pontificato wojtyliano nella dissoluzione dei regimi comunisti ha contribuito comunque a consegnare alla storia l’immagine di un pontificato «di ripresa», dove la Chiesa avrebbe riguadagnato terreno.
Col passare del tempo crescono gli indizi che mostrano l’artificiosità manipolata di una certa retorica esaltazione del recente protagonismo ecclesiale. Anche nel cuore dell’Europa cristiana appare sempre più attuale la vecchia massima di Tertulliano secondo cui «cristiani non si nasce, si diventa»: la fede non è mai dell’ordine di un possesso scontato, di un vantaggio acquisito. Ma proprio il numero crescente di contemporanei per cui il cristianesimo è un «passato che non li riguarda» (Ratzinger) rimane del tutto indifferente – quando non infastidito – davanti all’agitarsi di strutture ecclesiali autoreferenziali, dove la vita cristiana sembra talvolta il termine di un darsi da fare, un’occupazione da sfaccendati cultori della materia, tutti arruolati in un dedalo di nuove competenze da laici “professionalizzati” o in movimenti concepiti come piccole isole di Chiesa perfetta.
«Forse – ha scritto di recente Enzo Bianchi – negli ultimi decenni molti si sono illusi che il ricorso ai grandi eventi, l’utilizzo delle nuove tecnologie, l’adeguamento ai modelli vincenti di creazione del consenso potessero funzionare anche a livello ecclesiale».
Focalizzando le energie «verso iniziative “drogate” dal numero e dalla visibilità mediatici», a detta del Priore della Comunità di Bose «si è finito col creare una sorta di assuefazione allo straordinario e al conseguente disinteresse, alla noia, se non al disgusto, per la quotidianità del vissuto».
Un nuovo dicastero che individui nella mobilitazione culturale e nel confronto con le “sfide” della modernità globale d’impronta occidentale l’orizzonte privilegiato per documentare l’efficacia storica della proposta cristiana, rischia di trasformarsi nell’ennesimo strumento di autoccupazione ecclesiale. Non è certo questo il criterio suggerito da Benedetto XVI. Anche lunedì, annunciando l’istituzione del nuovo organismo curiale, il Papa ha ripetuto che l’unico “soggetto attivo” della missione cristiana è lo Spirito di Cristo, che compie miracoli nella Sua Chiesa: «sembra a volte a noi Pastori della Chiesa di rivivere l’esperienza degli Apostoli, quando migliaia di persone bisognose seguivano Gesù, ed Egli domandava: che cosa possiamo fare per tutta questa gente? Essi allora sperimentavano la loro impotenza. Ma proprio Gesù aveva loro dimostrato che con la fede in Dio nulla è impossibile, e che pochi pani e pesci, benedetti e condivisi, potevano sfamare tutti».

© Copyright Il Secolo d'Italia, 30 giugno 2010

3 commenti:

Anonimo ha detto...

oggi i nostri ministri cattolici, hanno firmato un decreto per il marchio Hallal Italia che garantisce prodotti"Preparati con carne di pecora e capra, - spiega Salis - vengono controllati e certificati dall'Imam, la principale autorità religiosa per l'Islam "

Cioè ci rendiamo conto? Immaginiamo che per vendere salumi ci fosse bisogno del permesso di un vescovo e pagargli la tassa cosa succederebbe in Italia.
altro che laicità! A parigi la prefettura ha vietato la settimana scorsa un aperitivo a base di salumi perché di venerdi, e nel quartiere pregano i musulmani e non era ritenuto indicato! In francia l'hallal é obbligatorio per l'esercito, musulmani e non e la nazionale di francia, ha richiesto espressamente menù hallal per tutti! Grazie ai nostri ministri plurisposati, supercattolici e le cui scappatelle coi trans non vengono mai pubblicate a differenza di altri!L'Italia diverrà come francia e inghilterra. Yuppi!

Max

Anonimo ha detto...

Il pericolo non è l'halal dell'Islam ma la Coca Cola della secolarizzazione. E' quest'ultima che vuole fronteggiare il nuovo dicastero. Il fatto che non ci se ne renda conto nemmeno tra cattolici è la prova di quanto ce ne sia bisogno.

Anonimo ha detto...

non è detto che il pericolo sia uno solo, era il comunismo ed era il capitalismo,oggi è la secolarizzazione ma anche l'islam ritornato aggressivo come non mai.
Tiè a proposito di supercattolici politici di destra oggi pier paolo zaccai si è messo a delirare alla finestra vicino il laterano mentre partecipava a un orgia di trans e coca. Naturalmente di destra, difensore della famiglia con tanto di foto sul sito col Cardinal Ratzinger e il segretario georg e un'altra con Giovanni Paolo II. Aggiungerei un terzo pericolo: la classe politica a cui la Chiesa fa regali, concessioni e permessi in cambio di esenzioni fiscali, escort ecc. se si da la precedenza a mammona piùttosto che al vangelo, poi non ci si può alzare e dire la colpa è della coca cola, proprio mentre si ha un bel bicchiere di coca cola nella mano.

max