giovedì 29 luglio 2010

A colloquio con mons. Carrasco de Paula Presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Il rischio dell'abitudine nel praticare l'aborto (Ponzi)


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A colloquio con monsignor Ignacio Carrasco de Paula Presidente della Pontificia Accademia per la Vita

Il rischio dell'abitudine nel praticare l'aborto

di Mario Ponzi

L'uso indiscriminato della Ru486, la pillola che procura l'aborto, oltre a diffondere uno strumento di morte per innocenti, può facilitare l'insorgere di una grave sindrome post aborto, già riscontrata su donne armene da un'équipe di medici del Policlinico Gemelli cioè "l'abitudine alla pratica abortiva, alla quale si finisce per accostarsi quasi come si andasse a prendere un caffè". "Facilitare l'uso di questa pillolapuò significare banalizzare l'aborto e dunque trasformare la gravidanza indesiderata quasi come un fastidioso raffreddore da eliminare con la pasticca". Lo denuncia monsignor Ignacio Carrasco de Paula - succeduto il 30 giugno scorso all'arcivescovo Rino Fisichella alla guida della Pontificia Accademia per la Vita - in questa intervista rilasciata al nostro giornale. La Pontificia Accademia ha già avviato un approfondito studio sulle crisi post aborto; i risultati saranno raccolti in un documento la cui pubblicazione è prevista per il prossimo anno. Ma non è l'unica novità in cantiere. Monsignor Carrasco de Paula ce ne ha parlato in un lungo colloquio.

Lei rappresenta la storia della Pontificia Accademia per la Vita essendone stato uno dei pionieri.

Effettivamente il cardinale Angelini mi chiamò a farne parte l'11 febbraio 1994, quando cioè fu istituita da Giovanni Paolo ii. Certo allora non avrei mai immaginato che un giorno l'avrei addirittura guidata. Ho visto dunque muovere i primi passi dell'Accademia, sotto lo sguardo attento del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari. Era stata affidata al professor Jérôme Jean Louis Marie Lejeune, ma non fece in tempo ad assumere la carica; morì il 3 aprile dello stesso anno. Era un uomo straordinario. Non solo un grande scienziato; era soprattutto un cristiano coerente con la sua fede e un grande servitore della Chiesa. Seguo con attenzione l'iter della causa di beatificazione. Sono trascorsi ventisei anni da quei giorni e ora per me si apre un ciclo nuovo, anche se per alcuni aspetti sembra essere la conclusione di una parabola.

Qual è stato il cammino di questi anni?

Si sono succeduti diversi presidenti, io sono il quinto: dopo Lejeune, c'è stato il cileno Juan de Dios Vial Correa, monsignor Elio Sgreccia e poi il mio immediato predecessore, l'arcivescovo Rino Fisichella. Il cammino compiuto sino a oggi si può dire che abbia ricalcato la crescita di una persona umana. Più che altro si è trattato di una maturazione interna. A mano a mano che il tempo è passato la nostra missione, il nostro modo di operare si sono affinati.

In che senso?

All'inizio era urgente diffondere un'immagine precisa di quale fosse, nelle intenzioni del Papa, il ruolo di un'Accademia per la vita. Era il periodo della rivoluzione biotecnologica; l'ingegneria genetica faceva sempre nuove conquiste e c'erano sempre nuove sfide da affrontare. Il Papa volle riunire attorno a sé un gruppo di esperti nelle diverse discipline per studiare i problemi riguardanti la promozione e la difesa della vita umana e della dignità della persona, prima di tutto per promuovere la cultura della vita nel rispetto del magistero. L'unico modo per farci conoscere era l'organizzazione di diversi congressi su temi specifici. Ne abbiamo organizzati tanti. Poi poco a poco ci siamo trasformati in uno strumento di studio e di approfondimento al servizio del Papa, di tutti gli organismi della Santa Sede, della Chiesa universale. Per esempio quando i media hanno rilanciato la notizia che in un laboratorio sarebbe stata creata la vita, abbiamo affrontato approfonditamente la questione, non certo per giudicare gli altri, quanto piuttosto per cercare di capire gli aspetti scientifici e valutarne l'eticità. Una volta concluso l'approfondimento mettiamo i risultati a disposizione dei dicasteri vaticani.

E attualmente su cosa state lavorando?

Ci stiamo occupando per esempio delle banche dei cordoni ombelicali. Si tratta di una questione molto importante e delicata perché riguarda la problematica legata all'uso delle cellule staminali. I cordoni ombelicali contengono effettivamente cellule staminali eticamente ed efficacemente utilizzabili. Ma non è quello che ci occupa in questo momento. La riflessione riguarda la conservazione. A chi compete? Deve essere un'istituzione pubblica a farlo o possono farlo anche enti privati? E in questo caso che tipo di controllo etico si deve esercitare? Quali problemi comporta dal punto di vista economico, sociale e politico? Come garantire che si tratti di un vantaggio per tutta l'umanità e non solo un privilegio per pochi? Come si intuisce è un argomento molto importante che dunque richiede uno studio approfondito. Lo abbiamo già iniziato da tempo con un piccolo gruppo di esperti. Ma a questo punto sentiamo il bisogno di allargare il numero degli studiosi attorno a questa attualissima tematica, perché abbiamo intenzione di chiudere entro la fine dell'anno. Del resto abbiamo già affrontato l'argomento delle cellule staminali in un congresso lo scorso anno. Ha avuto molto successo ma ha lasciato aperti alcuni interrogativi. Verteva sull'uso delle staminali adulte. Sono state evidenziate le loro enormi potenzialità, sicuramente superiori e accertate piuttosto di quelle derivate embrionali. Tuttavia come, ripeto, ci sono questioni che vanno ancora approfondite e ben studiate. È quello che stiamo facendo.

C'è dunque da aspettarsi un documento della Pontificia Accademia per la Vita sulle staminali entro la fine del 2010?

No, non entro la fine del 2010. Noi ragioniamo in termini di anno accademico; dunque ci si può riferire a un periodo che va dal prossimo autunno all'inizio di ottobre 2011.

Questo è per il momento l'unico argomento di cui vi state occupando?

C'è una lunga lista di impegni. Quello che riteniamo urgente e importante in questo momento riguarda la cosiddetta sindrome post aborto. Colpisce molte donne dopo l'aborto e se ne parla da tanto tempo, ma se ne parla poco pubblicamente e soprattutto non si cerca di giungere a delle indicazioni. Dare indicazioni è quello che stiamo cercando di fare con il nostro lavoro. Speriamo di riuscirci in breve tempo. Non mi chieda di quantificare perché si tratta di una questione delicata. Le posso dire solo che siamo a buon punto.

Su cosa è concentrata l'attenzione?

Riteniamo che nello studio di questa materia si debba intanto fare una distinzione. C'è infatti un aspetto della sindrome post aborto molto conosciuto e intorno al quale si è già sviluppato un ampio dibattito con la relativa letteratura. Mi riferisco allo stato di depressione che assale molte donne che hanno praticato l'aborto. A volte può manifestarsi anche con stati di ansia o con forme anche più gravi. Noi stiamo cercando di approfondirne i contorni. È certo che l'aborto, oltre a uccidere un innocente, incide profondamente nella coscienza della donna che vi fa ricorso. Una questione dunque che non si può ignorare; soprattutto dal punto di vista pastorale. C'è poi un altro aspetto da considerare in queste patologie, che per noi è ben più pericoloso. Se ne parla poco e dunque preoccupa di meno l'opinione pubblica, ma anche quella scientifica. È il grave fenomeno dell'abitudine all'aborto. Il problema si propose in tutta la sua gravità già una ventina di anni fa quando, a seguito del grave terremoto che sconvolse l'Armenia (quello del 1998), un'équipe di medici del Policlinico Gemelli, dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, partita volontaria per soccorrere le popolazioni colpite, appurò che tantissime donne avevano già abortito più di venti volte. E per loro abortire era ormai diventato come prendere un caffè. Parlarono di un fenomeno drammatico di completa cancellazione della sensibilità morale quando si trattava di abortire. Un dramma al quale la recente commercializzazione della pillola Ru486 può esporre le popolazioni europee. Non c'è dubbio infatti che facilitarne la pratica può significare banalizzare l'aborto e dunque trasformare la gravidanza indesiderata quasi come un fastidioso raffreddore da eliminare con la pasticca. Voglio dire che quanto accaduto in questi Paesi può tranquillamente accadere anche in quelli europei. Per questo stiamo pensando a un documento di approfondimento. Quando si parla di aborto, purtroppo, si innescano tante problematiche che suscitano sempre un acceso dibattito, a volte anche all'interno del mondo cattolico.

Cosa pensate di ottenere dalla sua diffusione?

Cercheremo di informare la gente su questo rischio; daremo dei riferimenti molto precisi. Per quanto poi riguarda delle indicazioni pastorali ci sono organismi più competenti del nostro. Noi assicureremo loro tutta la nostra collaborazione. Per informare e fornire punti di riferimento scientifici. Questo è il ruolo della Pontificia Accademia. Abbiamo cercato di andare sempre oltre le polemiche per riflettere su ogni singolo aspetto delle vicende, anche se scomode da affrontare. E il dibattito, interno o esterno, non ci spaventa anzi, ci arricchisce.

Si possono azzardare previsioni?

Anche in questo caso è impossibile. Si sta lavorando da molto tempo sull'argomento. Si dovrà attendere dunque anche in questo caso almeno la fine dell'anno accademico.

Dunque non aspettiamo nulla a breve?

Abbiamo una lunga serie di argomenti da affrontare ed è possibile che qualcosa a breve giunga a compimento. Ma dire cosa è ancora presto. Pensi solo che abbiamo una settantina di collaboratori più assidui, e la possibilità di contattarne tanti altri in qualsiasi momento. Quindi si tratta solo di scelte da fare a seconda delle urgenze che ci vengono manifestate.

In questi ultimi tempi, per esempio, si è molto parlato anche del fine vita e di tutte le problematiche a esso correlate. Può essere un'urgenza?

È un argomento molto delicato sul quale bisogna fare chiarezza al più presto, così come fu fatta chiarezza nei confronti dell'eutanasia. Intanto oggi si parla sempre meno di eutanasia, o almeno non se ne parla più di tanto. Ma non perché sia tramontata l'idea dell'eutanasia; solo che si è trasformato il linguaggio. Così si parla di sospensione dei mezzi di sostentamento vitale, di porre fine all'alimentazione, all'idratazione artificiali; di ordine di sospensione delle cure. E molta confusione persiste sull'individuazione del momento stesso della fine della vita: quando smette di battere il cuore? La morte cerebrale? Per dare una risposta a questi inquietanti quesiti bisogna riflettere, studiare, approfondire su basi scientifiche, ma anche su basi etiche, morali, naturali. E tutto ciò richiede uno studio molto, molto attento e scrupoloso. È un lavoro già ben avviato da tempo, si tratta di continuare.

(©L'Osservatore Romano - 30 luglio 2010)

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