domenica 17 gennaio 2010
Sulla Shoah, Benedetto XVI ha pronunciato le frasi forse più forti mai dette da un Papa, la condanna della «furia nazista» (Vecchi)
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Gian Guido Vecchi
CITTÀ DEL VATICANO
A dare il senso della memoria, sarà il nipote di uno dei pochissimi che tornarono da Birkenau a consegnare questo pomeriggio a Benedetto XVI una lettera dei sopravvissuti alla Shoah: noi siamo stati abbandonati allora — è il senso di ciò che hanno scritto — e siamo qui proprio perché il silenzio di tutti che allora ci fu non sia un silenzio per l’avvenire.
Il silenzio «di tutti»: ancora ieri sera, intorno alla Sinagoga di Roma illuminata a giorno dai riflettori — tra le prove generali per la cerimonia di accoglienza del Papa e i miracoli dei volontari nell’affrontare più di 600 richieste di accredito da giornalisti di tutto il mondo —, nella comunità ebraica ci si è riuniti per sistemare gli ultimi dettagli e valutare ogni virgola dei discorsi che saranno pronunciati oggi, citare o no il silenzio di Pio XII, alludere, far capire? «La mia sarà una riflessione basata sui testi sacri, sul senso dei nostro confronto e su quanto le Scritture ci dicono oggi», sorride il rabbino capo, Riccardo Di Segni. Il clima di tensione si è stemperato e la parola più ripetuta è «responsabilità» — il ruolo delle religioni, la necessità del dialogo per la pace nel mondo — dopo giorni di polemiche seguite alla proclamazione, prima di Natale, delle «virtù eroiche» di Papa Pacelli e da ultimo il «no» del rabbino emerito di Milano Giuseppe Laras. Lo stesso Laras, ieri sera, ha però detto: «Spero che qualcosa di positivo possa emergere, al di là di quello che appare. Sono un figlio della Shoah e su questo non transigo. L’importante è che il dialogo interreligioso prosegua».
Del resto, le parole dei sopravvissuti, la loro stessa presenza in sinagoga sono già abbastanza eloquenti.
La visita di Benedetto XVI inizierà proprio dalla lapide che ricorda il 16 ottobre del ’43, il rastrellamento del ghetto e la deportazione degli ebrei romani: di 1.021, tornarono in 17. Il primo a prendere la parola sarà Marcello Pezzetti, direttore del museo della Shoah di Roma. In sinagoga attenderanno 15 sopravvissuti, e due di loro facevano parte di quel primo convoglio dall’Italia: Sabatino Finzi e Lello Di Segni, «dovevo essere chiamato 158526. Come un cavallo». Proprio ieri, il Papa ha rievocato gli anni del nazismo, «sapevamo che che Cristo è più forte della tirannide, della forza della sua ideologia e dei suoi meccanismi di oppressione», parole tanto più importanti perché dette a braccio, il volto commosso, mentre parlava a una delegazione di Frisinga, la città tedesca nella quale, ancora ragazzo, studiò in seminario nell’immediato dopoguerra: «Riposavamo nei dormitori, studiavamo nelle sale da studio, ma eravamo felici, non solo perché eravamo sfuggiti alle miserie e ai pericoli della guerra e del dominio nazista, ma perché ormai eravamo liberi». E ora ci siamo: Benedetto XVI visita la sua terza sinagoga, dopo Colonia il 22 agosto 2005 e New York il 18 aprile 2008; un pontefice torna in quella di Roma quasi ventiquattro anni dopo Giovanni Paolo II, che il 13 aprile 1986 fu il primo pontefice nella storia a varcare la soglia di un tempio ebraico. Ma c’è qualcosa che va oltre: «Un mese dopo la sua elezione, Benedetto XVI ha dichiarato di considerare provvidenziale il fatto che sulla sede romana a un pontefice polacco sia succeduto un tedesco, quasi a chiudere simbolicamente gli orrori della seconda guerra mondiale», ricorda sull’Osservatore Romano di oggi il direttore Giovanni Maria Vian.
Joseph Ratzinger, vescovo di Roma, entra ora nella sinagoga che sta nel territorio della sua diocesi, nel ghetto dove Papa Paolo IV rinchiuse gli ebrei nel 1555, accolto dalla comunità ebraica più antica della diaspora, già presente prima dei cristiani.
Le sue parole, ovvio, sono attesissime: sulla Shoah, Benedetto XVI ha pronunciato le frasi forse più forti mai dette da un Papa, la condanna della «furia nazista», di quel «regime senza Dio», e il monito contro chi vuole stravolgere la storia, «qualsiasi negazione o minimizzazione della Shoah è inaccettabile e intollerabile».
Il saluto del presidente degli ebrei italiani, Renzo Gattegna, di quello romano Riccardo Pacifici, l’intervento del rabbino Di Segni. E poi il Papa. È probabile che nel suo discorso Benedetto XVI torni anche su quello che «fin dall’inizio è stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico», come scriveva il 10 marzo nella lettera ai vescovi sui lefebvriani, ovvero la «condivisione» e la «promozione » di «tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio». Giovanni Maria Vian, sull’Osservatore, riportava tra l’altro i ricordi del seminario di Frisinga scritti da Ratzinger, parole di grande apertura: «Solo dopo la Seconda Guerra mondiale abbiamo cominciato davvero a capire che anche l’interpretazione ebraica delle Scritture possiede una sua specifica missione teologica nel tempo "dopo Cristo"».
© Copyright Corriere della sera, 17 gennaio 2010 consultabile online anche qui.
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2 commenti:
Ma alla Domenica, i quotidiani hanno deciso di essere finalmente "piu' buoni"?
Mi è parso tutto molto "ordinato" e anche il venire fuori del nome di Giovanni Paolo II era piu' nel senso di una continuità nella Chiesa, che non di paragoni.
(e intanto manca meno di un'ora....)
Grande Maria!
L'ho notato anche io e mi sono fatta una mia idea che diro' ma non ora :))
R.
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