sabato 20 febbraio 2010

Il richiamo di Sant’Antonio (Aldo Maria Valli)


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Il richiamo di Sant’Antonio

Aldo Maria Valli

Cade una pioggerella fastidiosa su Padova, ma il serpentone non si scompone neppure per un istante. Si snoda silenzioso e paziente, sembra addormentato. Solo di tanto in tanto si scuote, per avanzare di qualche metro verso la basilica.
È un mondo sconosciuto, un fiume carsico che sale in superficie solo in rare occasioni.
È comparso tempo fa a San Giovanni Rotondo quando venne esposto il corpo di padre Pio ed è ricomparso ora qui a Padova per l’ostensione dei resti di sant’Antonio. Un mondo composito, per nulla semplice da decifrare. Fatto di anziani ma anche giovani e persone di mezza età. Italiani e stranieri. Europei ma non solo. Tutti accomunati da una fede tanto profonda quanto poco desiderosa di essere esibita. Ma il serpentone è lungo lungo, impossibile non vederlo, e impossibile non interrogarsi sulla sua origine.
Dentro la basilica, mentre risuonano le preghiere e i canti provenienti da una messa, i fedeli in coda compilano scrupolosamente un biglietto che è stato loro consegnato all’ingresso. Possono scrivere lì le loro intenzioni, le loro richieste destinate al santo. Le schede finiscono poi in una teca posta accanto allo scheletro di Antonio. Ognuna di esse sarà letta. Ma le si può anche inviare per posta o per e-mail. È dall’anno duemila che il “caro sant’Antonio”, come viene chiamato il biglietto, è disponibile per i pellegrini.
Se si facesse uno studio sulle migliaia di messaggi arrivati verrebbe fuori un trattato di sociologia della religione, e si scoprirebbe che quello scheletro, appartenuto a un uomo vissuto ottocento anni fa, per una moltitudine impensabile di persone è il terminale di un mondo che soffre ma continua a sperare e soprattutto a ringraziare. Al santo si chiedono guarigioni, si chiede che i figli possano trovare un lavoro, si chiede che un giovane trovi la forza di uscire dal tunnel della droga, si chiede compagnia, vicinanza, sostegno nelle prove della vita. Che lo si coltivi con carta e penna o attraverso il sito internet, il rapporto con il santo è qualcosa di assolutamente concreto e personale. Un dialogo, un confronto, un’amicizia. Si racconta che un tempo, quando non manteneva la promessa di far trovare marito alle ragazze e di far nascere bambini, la statua del santo veniva esiliata dalle case dei fedeli e trasferita in giardino, per poi essere riammessa all’interno una volta che Antonio fosse riuscito a svolgere la sua missione. Tra amici queste cose succedono.
La santità qui assume i tratti concreti della fede popolare. È carne e sangue, è speranza fatta di preghiere sussurrate e di implorazioni reiterate. È fatta di sorrisi e di lacrime, di sguardi assorti o stupefatti.
Nel leggere i biglietti si ha quasi l’impressione di compiere una profanazione. Si entra nei santuari dello spirito. Colpisce lo stile diretto.
Nella bella redazione del Messaggero di sant’Antonio, il mensile diffuso in tutto il mondo, ci sono persone impegnate a rispondere, e c’è anche un call center, perché i fedeli non solo scrivono ma telefonano. Come ha scritto padre David Maria Turoldo nel libro Perché a te Antonio?, il santo frate è sempre stato chiamato da tanta gente, e lui non si è mai fatto desiderare. Sempre una risposta, sempre una parola. Anzi, la Parola.
Quella che non si può non dire, perché se non la si dice si tradisce, e se la si dice si può essere uccisi, come è successo al vescovo Oscar Romero.
Antonio era «un rovo che nessuno riusciva a spegnere», ed è ancora così. Quando è incominciata l’ostensione dello scheletro qualcuno a Padova temeva che non venisse nessuno.
Dopo poche ore il serpentone si era già formato, come se non avesse aspettato altro che quel richiamo.
Le grazie ricevute sono innumerevoli.
C’è la ragazza che non avrebbe dovuto nascere ed è invece venuta al mondo grazie ad Antonio. C’è l’operaio che stava morendo in un incidente sul lavoro e sente di essere vivo per miracolo. C’è il giovane che stava per annegare ma poi ha visto il santo e si è ritrovato, non si sa come, in superficie. Gli scettici hanno di che sorridere. Il taxista che mi riporta alla stazione lo fa senza ritegno: «Io la penso come Margherita Hack!», esclama quando gli spiego che mi sono lasciato rapire dalle voci e dai sussurri del serpentone umano.
Rispondo: «È una soluzione rispettabilissima, eppure, mi scusi, mi sembra anche una fuga». Come si fa a non interrogarsi? Come si fa a non sentirsi interpellati? Anche la cameriera dell’albergo, in mattinata, aveva espresso le sue perplessità: ma è proprio necessario riesumare i resti di un corpo? Ho provato a rispondere che quelle povere ossa un giorno permisero a un uomo di donare speranza e che il cristianesimo è fede incarnata, niente a che fare con lo spiritualismo. Mi ha guardato poco convinta.
Della visita conservo un’immagine.
Quando, nella basilica, ci si trova davanti allo scheletro del santo, alcuni addetti ti spingono fisicamente avanti. Impossibile fermarsi. Giusto il tempo di un’occhiata, di un’ennesima, breve preghiera, di un segno della croce. Il serpentone deve scorrere. Dietro c’è un mondo che preme. Ma che ne sappiamo noi?

© Copyright Europa, 20 febbraio 2010 consultabile online anche qui.

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