venerdì 19 febbraio 2010
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Benedetto XVI al clero di Roma
La forza della generosità lo sfregio del tornaconto
Davide Rondoni
I preti sono uomini tra gli uomini.
Ieri il Papa li ha invitati fortemente ad essere "completamente" uomini. A essere uomini di contemplazione ma anche uomini di "compassione" verso l’uomo che è ferito dal peccato. Per la loro stessa condizione di verginità e di dedizione, i preti possono vivere l’umanità di tutti, e non una parziale umanità, non una parziale dedizione. Il richiamo di ieri al clero romano è di grande importanza. Parlando ai preti, il Papa sa di parlare, per così dire, alla società guardata con gli occhi di Gesù. Alla società abitata da Gesù.
Per questo ciò che ha detto ieri interroga la nostra intera società. Non è un discorso per un gruppo separato. Non un programma per una certa fascia sociale o per un certo gruppo di interesse. Non per un partito. Ma per uomini che hanno accettato di farsi di tutti. Che hanno accettato di essere servi di tutto e di tutti. In un certo senso dei veri sovvertitori, in questa epoca dove spesso gli uomini giocano a fare i presunti padroni e padroncini della vita propria e altrui. Per questo ieri ha osato ricordare il più grande sovvertimento della storia. Ovvero lo sguardo di Cristo sull’uomo. Lo sguardo che sa che cosa è veramente umano, degno d’uomo. Lo sguardo che anche nel peccatore vede la possibilità della scoperta del vero bene. E della piena soddisfazione. Il vero sguardo rivoluzionario. Che non lascia le cose come stanno.
Che non lascia in pace nessuno.
Così quando ieri il Papa si è soffermato sul fatto che non si può dire che mentire o rubare è umano, devono tremare i petti di tutti. Così quando ha detto che invece è veramente umano l’essere generosi, devono tremarci i polsi in questa società dove la generosità sembra perdere terreno in favore del bieco e a volte scorretto tornaconto. Il Papa non ha detto: rubare non è legale. Sarebbe stato troppo poco. E troppo comodo, in un certo senso. Ha detto: non è umano. Ha detto ben di più. E ha usato la parola "peccato". Che è come dire la ferita più dura. L’orrendo. E’ un peccato di disumanità. E ha detto ai suoi: chiamatelo con il suo nome. Non dite che rubare è umano. No, è disumano.
Perché invece la generosità è veramente umana, la ricerca della giustizia è veramente umana. E lo sappiamo, se lasciamo parlare un poco la nostra esperienza lo sappiamo: avvertiamo molto più compiuta la nostra vita quando è generosa, quando sa donarsi, di quando ricaviamo per noi stessi gioie rubate. La compassione, il farsi vicino all’uomo come è, segnato dal peccato, significa ricordare sempre cosa è l’uomo veramente. Cosa lo rende veramente tale. Cioè dove sta la sua vera soddisfazione.
Ha osato per questo, il Papa, soffermarsi sulla parola più temuta della nostra epoca: la parola obbedienza. La parola rigettata da tutti come fonte di alienazione, dice, è invece la descrizione della esperienza che conforma il nostro essere a ciò che è più suo, più adeguato a noi. Per questo l’obbedienza è una forma della libertà. Poiché ascoltando Dio, si ascolta il bene della natura del nostro essere più profondo.
Parlando ai suoi preti, il Papa vescovo di Roma, non ha girato intorno ai problemi. Ha descritto un clero appassionato alla vita degli uomini. Che non si fa dettare le categorie di giudizio e di pensiero sulla vita da altro che non sia il Vangelo. E perciò sa essere dalla parte della persona sempre. Parlava ai suoi, il Papa. Ma poiché la sua è l’unica leadership mondiale che si fonda sull’essere servo, parlava in un certo senso come servizio a tutti. E infatti sono parole che, in mezzo al troppo chiacchierume anche di queste settimane, servono veramente.
© Copyright Avvenire, 19 febbraio 2010 consultabile online anche qui.
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Antonio
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