sabato 4 settembre 2010

Domani il Papa sulla orme di Leone XIII. Le campane di Papa Pecci (Gualtiero Bassetti)


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Le campane di Papa Pecci

di Gualtiero Bassetti
Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve

Dal suo Leone vigile, generoso e arguto, il gregge perugino non s'è, in fondo, mai separato; né lui da loro. Lo si constata risalendo, non solo nella storia e nella tradizione, ma anche lungo il corso del Tevere: da più d'un campanile della diocesi, si sente ancora la Leona o la Leonia diffondere il caratteristico rintocco limpido e solenne, riservato alle grandi occasioni. Era di solito la campana maggiore: la intitolavano dal nome del "loro Papa" le singole parrocchie, per gratitudine e fierezza, quando veniva installata o fusa, perché si trattava, quasi sempre, di un dono suo.
Al tempo di Gioacchino Pecci, vescovo di Perugia dal 1846, e dal 1878 papa Leone XIII, in diocesi fu tutto un fiorire di ricognizioni, restauri e ricostruzioni, sia degli edifici sacri sia del tessuto delle comunità - opera già iniziata, specialmente quest'ultima, dal rigoroso episcopato del ternano Carlo Filesio Cittadini. Dal canto suo, Gioacchino Pecci aveva conosciuto Perugia come delegato pontificio all'inizio degli anni quaranta, dedicandole una particolare cura anche dal punto di vista sociale e urbanistico nonostante il breve lasso di tempo; quando ne divenne il pastore, la ritrovò con gioia e ne approfondì volentieri la conoscenza, sia in termini affettivi sia canonici, da uomo colto e aperto qual era, reso più attento dall'esperienza internazionale. La visitò più volte accuratamente nelle oltre centocinquanta parrocchie, coinvolgendo in ciò numerosi membri del clero diocesano - che in tal modo intendeva educare e valorizzare e ai quali in seguito affidò incarichi nella Chiesa universale: da Giulio Boschi a Gabriele Boccali, da Luigi Rotelli a Francesco Satolli. Ne fanno fede le dense visite pastorali, sostenute da un nutrito carteggio. Pecci fu atteso con una reverenza screziata di affetto e corrispondente alla sua fama dai più stretti collaboratori, anche laici, con i quali instaurò da subito un fecondo rapporto di stima e fiducia: a cominciare da Lorenzo Silvestrini, erede di una dinastia di cancellieri che avrebbe dato ulteriori notai alla curia. Tutto ciò fa sentire anche a me, vescovo di questa stessa Chiesa, l'onore, la dolcezza e la responsabilità di quell'abbraccio, lo stesso del defensor civitatis sant'Ercolano che - raffigurato dal Maestro di Montelabate - stringe idealmente al cuore la città.
E tutto il territorio. Proprio durante le visite alla diocesi, il vescovo Pecci si rese conto delle condizioni in cui versava la maggior parte delle chiese, soprattutto del contado, bisognose di essere ricostruite, del tutto o in parte; e provvide, incoraggiando e stimolando le parrocchie stesse a "crescere", oltre a non far mancare il proprio contributo anche da Papa. Ecco perché si parla oggi delle "chiese leonine". Le visite però non gli servirono solo a verificare le condizioni degli edifici. Lo si sarebbe capito, a livello macroscopico, dalla Rerum novarum e da molte altre encicliche, che hanno radici perugine; e dalla rivalutazione della pietà popolare, nelle forme mariane e nella devozione al Sacro Cuore di Gesù e ai santi, a cominciare da san Giuseppe, proposto come modello per i padri di famiglia e i lavoratori. La sopravvivenza in diocesi di un colorito ricordo di Pecci, anche a livello aneddotico, rivela la simpatia popolare, la quale, non essendo mai "dovuta", è chiaro segnale di penetrazione. Dopo l'elezione a Papa, vi fu un flusso praticamente continuo in Vaticano per incontri, pellegrinaggi, udienze: tra giubilei e anniversari, i perugini non si lasciarono sfuggire un'occasione.
Tutto ciò narra con calore - si direbbe complicità - "Il Paese". Il settimanale era stato fondato nel 1876 dal "pupillo" del vescovo Pecci, don Geremia Brunelli. Pupillo, ecco in che senso: nominato professore in seminario, una volta gli capitò di recarsi in aula con lieve ritardo, per trovare lo stesso Pecci seduto a far lezione al posto suo. Il seminario: questo sì era considerato dal vescovo la "pupilla" dei suoi occhi. Lo stesso Brunelli, in una biografia mista a ricordi, ne narra la riforma - con l'accento posto sul versante scientifico e sulla letteratura italiana classica e contemporanea - e i metodi, che si condivano di prossimità costante, fatta anche di certami poetici e gite in barca sul lago Trasimeno. Lo stesso Pecci si occupava della formazione culturale e spirituale dei suoi chierici, che voleva perfettamente allenati a mediare la dottrina della Chiesa presso tutte le classi sociali, dalle più sofisticate alle più umili. E forse proprio gli umili continuarono più assiduamente a seguirlo: affezionati a Papa Pecci, certo; ma, tramite lui, al Papa. Iniziative come quelle del parroco di Ponte Pattoli, che fondò il circolo giovanile "Leone XIII" (poi confluito nell'Azione Cattolica) e lottò perché fosse applicata la dottrina sociale della Rerum novarum, e la lapide posta dal parroco di Tisciano a una edicola mariana con il monito di Benedetto xv contro la guerra come "inutile strage", proprio per il loro situarsi ai margini del territorio sono segni di una diffusa e durevole matrice ecclesiale.
Nel 1903, la morte del Papa fu per molti perugini un lutto dolorosissimo, nonostante la tarda età del grande "simbolo". Tale era infatti divenuto. E proprio per questo, il rapporto tra la peruginità e il papato inaugurò con Pecci una nuova stagione, che non si chiuse con la morte di lui. "Il Paese" continuò a seguire fedelmente il Papa, che adesso era Pio X, e così fece, negli anni seguenti, il Bollettino Ecclesiastico. attraverso quelle pagine umili, all'inizio povere anche riguardo alla qualità della carta, che scorrono sotto i nostri occhi, oggi, due conflitti mondiali e le crisi culturali e ideologiche del Novecento. L'arcivescovo Giovanni Battista Rosa, che del "Papa Sarto" era figlio spirituale, fu vescovo di Perugia nel difficile ventennio fascista, applicando più che mai in quel momento delicatissimo la guida di Pio XI e Pio XII (presso i quali continuarono i pellegrinaggi perugini iniziati con Papa Leone); e così fece a maggior ragione, durante la guerra e dopo, Mario Vianello (1943-1955), ancora ricordato per le iniziative a favore delle popolazioni, e in particolare per il salvataggio di tanti ebrei, in stretto collegamento con la Santa Sede. Raffaele Baratta (1959-1968) partecipò al Concilio e ne iniziò l'applicazione, che proseguì con il suo successore, Ferdinando Lambruschini (1968-1981). Pochi sanno che fu di quest'ultimo l'idea di invitare il Papa a Perugia: ma l'attentato a Giovanni Paolo II impose una dilazione, e l'arcivescovo, che aveva pregato tanto per il Pontefice offrendo al Signore la propria vita, si spense in effetti di lì a poco. Ad accogliere il Santo Padre, il 26 ottobre 1986, c'era monsignor Cesare Pagani, altra grande figura, che si prodigò con lucidità e concretezza per la diocesi senza risparmio, morendovi nel 1988. Tutto questo per me è molto più che storia.
Quando sono stato nominato arcivescovo di Perugia dal Santo Padre Benedetto XVI, ho ricevuto in dono da parte della diocesi, anche a mo' di presentazione, il libro di Amilcare Conti Giovanni Paolo II in Umbria, edito nel 2005, che ripercorre i numerosi viaggi del Pontefice nella nostra regione, con particolare riguardo a Perugia la quale, anche per il suo servizio metropolitano, ne è il cuore. L'ho gradito, forse come Pecci gradì il lavoro del suo cancelliere, perché ci ho letto non solo la storia tra Perugia e "un" Papa, ma, al di là dei singoli protagonisti, quello che a un anno di distanza constato con i miei occhi: l'amore della Chiesa perugina per "il" Papa, il suo desiderio inesausto di compattezza e la sua fierezza di sentirsi parte integrante e dinamica della Chiesa universale. Credo sia questa - insieme alle campane - l'eredità più duratura di Papa Leone XIII.

(©L'Osservatore Romano - 5 settembre 2010)

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