domenica 17 gennaio 2010

Nella sinagoga di Roma il papa rilegge le "Dieci Parole". Anna Foa e Mordechay Lewy: anche l'ebraismo deve fare autocritica (Magister)


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di Sandro Magister

ROMA, 17 gennaio 2010

Le parole dette oggi da Benedetto XVI nella sinagoga di Roma – riportate integralmente più sotto – sono tanto più rilevanti in quanto sono risuonate entro un paesaggio non tutto amico, come è inesorabile che sia tra due fedi così unite in radice e insieme così radicalmente divise da quel Gesù di Nazaret che per i cristiani è il Figlio di Dio.
Ad accogliere papa Joseph Ratzinger in sinagoga c'era il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, c'era la comunità ebraica romana quasi al completo, la più consistente e fiorente d'Italia, erede di quella che abitava nella città "caput mundi" prima ancora che vi arrivassero gli apostoli Pietro e Paolo, ebrei convertiti a Gesù.
Non c'era però l'altro celebre rabbino d'Italia, Giuseppe Laras, della comunità ebraica di Milano. Non ha creduto in questo incontro e l'ha detto: "Sarà solo la Chiesa a trarne vantaggio". A suo giudizio, con Benedetto XVI il rapporto fraterno tra ebrei e cattolici non si è rafforzato ma "è diventato sempre più debole".
Gli ha risposto il rabbino Di Segni: "Sarà il tempo a decidere quale delle due [nostre] opposte visioni avrà avuto ragione".
In effetti, sono molte le questioni ancora "indecise", tra gli ebrei e la Chiesa di Roma.

IL GIORNO DEL "MOED DI PIOMBO"

Già la data scelta per la visita era a doppio taglio. Il 17 gennaio è per gli ebrei di Roma il giorno del "Moed di piombo": la memoria dell'incendio appiccato per odio al loro ghetto nel 1793, fortunatamente spento da un violento acquazzone disceso da un cielo dal colore "di piombo".
Il ghetto recintato è stato per secoli la modalità della presenza degli ebrei nella Roma papale. Al termine della visita in sinagoga, Benedetto XVI ha inaugurato nel Museo Ebraico una mostra su come nel Settecento gli ebrei romani erano obbligati a partecipare alla cerimonia di insediamento di ogni nuovo papa: con fiori, drappi e stendardi nell'area tra il Colosseo e l'Arco di Tito, quello che celebra la definitiva distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dell'impero di Roma.

IL RIFIUTO DEL RABBINO LARAS

Ma il 17 gennaio è anche, in Italia, la "Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei". Dal 2001 la comunità ebraica la promuove assieme ai vescovi italiani e dal 2005 entrambe le parti hanno concordato di dedicarla, volta per volta, a uno dei dieci comandamenti, sulla scia del discorso tenuto quell'anno da Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia.
Lo scorso anno, però, gli ebrei ritirarono la loro adesione alla Giornata, per impulso soprattutto del rabbino Laras, dando la colpa allo stesso Benedetto XVI e in particolare alla sua decisione di introdurre nel rito romano antico del Venerdì Santo la preghiera affinché Dio "illumini" i cuori degli ebrei, "perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini". Preghiera giudicata da Laras inaccettabile in quanto finalizzata alla conversione degli ebrei alla fede cristiana.
Non tutti gli ebrei italiani erano d'accordo con questo gesto di rottura. Ma la polemica contro Benedetto XVI raggiunse toni ancora più aspri e si allargò a tutto il mondo a motivo della revoca della scomunica a quattro vescovi lefebvriani di orientamento antigiudaico, tra i quali ve n'era uno, l'inglese Richard Williamson, che negava sfrontatamente la Shoah.
Il papa spiegò l'intenzione del suo gesto in una lettera ai vescovi cattolici del 10 marzo 2009. E in un passaggio della lettera ringraziò "gli amici ebrei" che – più di tanti uomini di Chiesa – l'avevano "aiutato a togliere di mezzo il malinteso e a ristabilire amicizia e fiducia".
La tempesta si acquietò un poco. E così nel 2010, questo 17 gennaio, gli ebrei italiani sono tornati a promuovere assieme ai vescovi la Giornata del dialogo, dedicandola al comandamento: "Ricordati del giorno di sabato per santificarlo", il quarto nella numerazione ebraica.
A migliorare il clima ha contribuito il viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa, lo scorso maggio.
Ma anche dopo quel viaggio le questioni controverse sono rimaste aperte. Due in particolare, tra loro intrecciate: Pio XII e la Shoah.

I SILENZI DI PIO XII E DEGLI EBREI

L'accusa maggiore che larga parte dell'ebraismo mondiale – ma anche una frazione del cattolicesimo – imputa a Pio XII è di aver taciuto di fronte allo sterminio nazista.
Prima di entrare, oggi, nella sinagoga, Benedetto XVI ha sostato davanti alla lapide che ricorda la deportazione ad Auschwitz di un migliaio di ebrei di Roma, il 16 ottobre 1943. L'accusa contro Pio XII è di aver taciuto anche in quella occasione, come ha ribadito il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, nel discorso con cui ha accolto il papa in sinagoga:
"Il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso un segnale, una parola di estremo conforto, di solidarietà umana, per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz".
A difesa di Pio XII, si sostiene che egli tacque per non provocare, con proteste pubbliche, ancora più vittime. Ed anzi egli fece moltissimo per salvare le vite di numerosi ebrei, che in effetti trovarono protezione in chiese, conventi, istituti cattolici. Protezione riconosciuta con parole commosse dallo stesso Pacifici, il cui padre trovò salvezza in un convento di suore di Firenze.
Proprio nei giorni che hanno preceduto la visita di Benedetto XVI in sinagoga, altri casi di ebrei salvati sono divenuti noti. Alcuni di questi trovarono rifugio durante la guerra nell'abbazia romana delle Tre Fontane, edificata sul luogo del martirio di san Paolo. I tedeschi vi si erano insediati, ma non si accorsero che tra i monaci, nascosti dal saio, c'erano degli ebrei, che alla fine furono salvi.
Sul piano storiografico, il profilo di Pio XII come "papa di Hitler" appare dunque sempre più infondato. Restano però forti e diffuse le critiche ai suoi silenzi pubblici sulla Shoah. E questo spiega le reazioni negative di molti ebrei al procedere della causa di beatificazione di Pio XII, un cui passo importante è stata la proclamazione della sue "virtù eroiche", lo scorso 19 dicembre.
Secondo il rabbino Laras, questa decisione di Benedetto XVI sarebbe stata motivo sufficiente perché gli ebrei di Roma cancellassero la sua visita alla sinagoga.
Ma la questione del silenzio sulla Shoah è più complessa di quanto appaia. Oltre al silenzio di Pio XII vi furono anche i silenzi di altri, che durarono a lungo dopo la seconda guerra mondiale. Le accuse a Pio XII si fecero rumorose e persistenti solo dopo la sua morte, a partire dagli anni Sessanta. Poiché, prima d'allora, anche il mondo ebraico tacque, non tanto su quel papa, ma sulla stessa Shoah:
"Il quindicennio dopo la seconda guerra mondiale, che in Europa fu il periodo del silenzio e della grande rimozione della Shoah, fu infatti anche per Israele un periodo di silenzio".
Questo ha scritto Anna Foa, ebrea, docente di storia all'Università di Roma "La Sapienza", in un articolo pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 15 gennaio 2010, antivigilia della visita di Benedetto XVI in sinagoga.
Un articolo di notevole rilevanza, per dove è stato scritto e quando.

ANNA FOA E IL "PECCATO D'ORIGINE" DI ISRAELE

Nell'articolo, Anna Foa fa proprie le tesi di uno dei maggiori studiosi del sionismo, Georges Bensoussan. A giudizio di entrambi, lo Stato d'Israele non nacque come "redenzione" dallo sterminio degli ebrei compiuto da Hitler. Il vero generatore dello Stato fu il sionismo, già durante il mandato britannico, con l'insediamento su quella terra di ebrei motivati a costruire un uomo nuovo. L'idea della Shoah come fondamento dello Stato d'Israele ha preso forza solo molto più tardi, dopo il processo ad Eichmann e soprattutto dopo la guerra del Kippur, in decenni recenti. E a prepararla – scrive Anna Foa – fu proprio il quindicennio di silenzio postbellico: un silenzio "abitato da memorie represse, da nuove paure identificate con le antiche paure realizzatesi nella Shoah, da sensi di colpa e volontà di rivincita".
Letta così, la nascita dello Stato d'Israele non è più quel "peccato d'origine" che ancor oggi gli imputano tanti suoi amici e nemici. Tra questi ultimi vi sono anche molti cattolici, in prima fila gli arabi che vivono nella regione. Il più autorevole di loro, il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal, era anche lui oggi nella sinagoga di Roma, all'arrivo del papa.
Secondo tale "vulgata", lo Stato d'Israele fu creato dalle grandi potenze per porre rimedio al precedente sterminio in Europa di sei milioni di ebrei, e così si compensò un'ingiustizia compiendone un'altra a danno delle popolazioni arabe del luogo. Nel 1964, quando Paolo VI si recò in Terra Santa, ancora la Chiesa di Roma non aveva accettato l'esistenza del nuovo Stato. E quando tre decenni dopo, nel 1993, la Santa Sede finalmente riconobbe lo Stato d'Israele e stabilì con esso rapporti diplomatici, gli arabo-cristiani presero quell'atto come un tradimento.
Ma da parte di Giovanni Paolo II e ora di Benedetto XVI, il riconoscimento d'Israele non ha più alcuna riserva.
Mentre, dall'altro lato, la memoria della Shoah incessantemente piegata ad arma di accusa contro la Chiesa di Pio XII e dei suoi successori, impedisce all'ebraismo di fuoruscire dalla sua identità di vittima.
Proprio così termina Anna Foa il suo articolo su "L'osservatore Romano". Assumendo la Shoah, invece che il sionismo, come fondamento della propria identità politica e religiosa, Israele rischia "un ripiegamento sulla catastrofe invece che sulla speranza del futuro"; si chiude in "un'identità dolente che oscilla sempre tra Auschwitz e Gerusalemme".

MORDECHAY LEWY E L'INCAPACITÀ DI PERDONARE

Ancora su "L'Osservatore Romano", nei giorni precedenti la visita di Benedetto XVI in sinagoga, un altro ebreo autorevole è andato ancor più a fondo della stessa questione.
L'autore, Mordechay Lewy, è ambasciatore di Israele presso la Santa Sede e ha pubblicato il suo articolo, oltre che sul giornale vaticano del 13 gennaio, sul mensile degli ebrei italiani "Pagine ebraiche".
Lewy riconosce che "solo pochi rappresentanti dell'ebraismo sono realmente impegnati nell'attuale dialogo con i cattolici". Sono soprattutto gli ebrei riformati, mentre le correnti ortodosse sono più restie.
Il motivo – scrive – è che il dialogo tra ebrei e cristiani è asimmetrico. Mentre i cristiani hanno l'Antico Testamento assieme al Nuovo, gli ebrei tendono a definire la propria identità religiosa in termini di "autosufficienza teologica". Si sentono gli unici "prescelti" da Dio. Impegnati strenuamente a sopravvivere in mezzo a cristiani che per secoli hanno fatto di tutto per convertirli, "gentilmente o, nella maggioranza dei casi, coercitivamente".
Così, "una ferita grave e dolorosa, inflitta nel passato, si apre ogni qualvolta la vittima si trova di fronte ai simboli del carnefice".
Anche oggi per molti ebrei avviene questo, scrive Lewy:

"Desiderano evitare ogni situazione in cui si debba perdonare qualcuno, specialmente se viene identificato giustamente o erroneamente come rappresentante del carnefice. La vittima ebrea sembra incapace di concedere l'assoluzione per misfatti lontani o recenti perpetrati contro i suoi fratelli e sorelle".

L'autocritica non è da poco. Ma proprio nel discorso che ha rivolto a Benedetto XVI, accogliendolo in sinagoga, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha detto parole che fanno sperare, a proposito dell'essere "fratelli" tra ebrei e cristiani:
"Il racconto del Sefer Bereshit, la Genesi, dà su questo delle indicazioni preziose. Come spiega rav Sachs, c'è nel libro, dall'inizio alla fine, un filo conduttore che lega storie diverse. il rapporto tra fratelli comincia molto male, Caino uccide Abele. Un'altra coppia di fratelli, Isacco e Ismaele, vive separata, vittima di rivalità ereditate, ma si ritrova per un gesto di pietà alla sepoltura del padre comune Abramo. Una terza coppia di fratelli, Esaù e Giacobbe, parimenti conflittuale, si incontra per una breve conciliazione e un abbraccio, ma le strade dei due si separano. Finalmente la storia di Giuseppe e i suoi fratelli, iniziata drammaticamente con un tentato omicidio e una vendita in schiavitù, si risolve con una conciliazione finale quando i fratelli di Giuseppe riconoscono il loro errore e danno prova di volersi sacrificare per l'altro. Se il nostro è un rapporto tra fratelli c'è da chiedersi sinceramente a che punto siamo di questo percorso e quanto ci separa ancora dal recupero di un rapporto autentico di fratellanza e comprensione; e cosa dobbiamo fare per arrivarci".

*

Su questo sfondo, ecco che cosa ha detto papa Joseph Ratzinger nella sinagoga di Roma, il 17 gennaio 2010.

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1341757

2 commenti:

Maria R. ha detto...

Grazie per la foto ;)
Corro a spedirla ad una persona che la gradirà moltissimo!

Anonimo ha detto...

Che dire?
Ci si trova di fronte a storie terribili e importantissime come il dialogo tra i popoli e le religioni. Un rappresentante ebraico ha parlato di silenzio di Dio sulla storia, e ricordo che ad Auschwitz pure il papa lo aveva accennato.
Nel mentre che Dio tace, se cosi' si puo' dire, perche' non rispettare l'altro, visto che e' anche l'unica strada razionale, per poter vivere qualche anno in pace?
Alberto