sabato 6 febbraio 2010

Il Caritas Baby Hospital di Betlemme: Un piccolo ponte di pace per i bambini palestinesi (Egidio Picucci)


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Il Caritas Baby Hospital di Betlemme

Un piccolo ponte di pace per i bambini palestinesi

di Egidio Picucci

"Dio mi ha benedetto con questa opportunità di esprimere agli amministratori, medici, infermiere e personale del Caritas Baby Hospital il mio apprezzamento per l'inestimabile servizio che hanno offerto - e continuano a offrire - ai bambini della regione di Betlemme e di tutta la Palestina da più di cinquant'anni. Padre Ernst Schnydrig fondò questa struttura nella convinzione che i bambini innocenti meritano un posto sicuro da tutto ciò che può far loro del male in tempi e luoghi di conflitto. Grazie alla dedizione del Children's Relief Bethlehem, questa istituzione è rimasta un'oasi quieta per i più vulnerabili, e ha brillato come un faro di speranza circa la possibilità che l'amore ha di prevalere sull'odio e la pace sulla violenza". Sono le parole con cui Benedetto XVI il 13 maggio 2009, nel corso del suo pellegrinaggio in Terra Santa, ha elogiato l'opera del Children's Relief Bethlehem, fondato, come lui stesso ha ricordato, da padre Schnydrig, un sacerdote svizzero inviato dalla Caritas tedesca a Betlemme.
La notte di Natale del 1952 questo religioso vide un uomo che mischiava sudore e lacrime mentre seppelliva il figlioletto, morto di freddo e di fame, nel fango di un campo profughi palestinese. Indignato e sconvolto, prese immediatamente in affitto una casa, mettendovi quindici letti e una scritta: "Caritas Baby Hospital".
Da quella notte, grazie a "uno dei più piccoli ponti costruiti per la pace" - la definizione è del fondatore - a Betlemme nessun bambino è rimasto senza assistenza medica.
Il "piccolo ponte" - il nome è stato suggerito a padre Schnydrig da Giovanni Paolo II, allorché nel novembre del 2003 disse che la Terra Santa "non di muri ha bisogno, ma di ponti" - è oggi un ospedale di tutto rispetto con ottantadue posti letto, aperto tutti i giorni e tutto il giorno ai bambini e alle madri di origine, lingue e religioni diverse. È l'unica struttura sanitaria per 500.000 bambini oltre la "Barriera di sicurezza" - così gli israeliani definiscono il muro che dal 2004 separa arabi ed ebrei - dotata di due reparti pediatrici, uno per neonati e prematuri, predisposti per cure intensive; un asilo infantile; un ambulatorio ecografico; una scuola per infermiere e una per le madri che usufruiscono pure di piccoli alloggi per poter restare accanto ai figli.
Le mamme sono generalmente giovanissime e spesso incapaci di accorgersi delle patologie dei figli: provvidenziale, quindi, l'aiuto delle infermiere che forniscono loro le basi fondamentali dell'educazione sanitaria che esse, poi, portano sul territorio, ampliando un'importantissima opera di prevenzione. Le patologie principali da fronteggiare sono legate al clima - apparato gastrointestinale in estate, apparato respiratorio in inverno - e le conseguenze derivanti dalla malnutrizione e dalla consuetudine di sposarsi tra consanguinei.
Con i suoi duecento dipendenti, l'ospedale costituisce, dopo l'università, la seconda fonte di lavoro per la popolazione palestinese di Betlemme e dintorni. Qui sono ricoverati ogni anno tremila bambini, mentre quindicimila ricevono trattamenti e cure ambulatoriali. Il guaio è che non tutti, purtroppo, riescono a raggiungerlo anche per via della cosiddetta "Barriera di sicurezza" che chiude i palestinesi nel loro piccolo mondo.
Dal 1975 nell'ospedale lavorano le suore Francescane Elisabettine di Padova, cui è affidato sia il compito professionale - impegno nell'ospedale e nel servizio sanitario in genere - che quello, delicatissimo, di una presenza relazionale, fatta di vicinanza alle famiglie, di sostegno psicologico agli infermieri, di presenza costante per infondere speranza.
"Qui - ha detto una suora - i bambini sono un richiamo costante alla speranza e alla vita". Soprattutto alla speranza, "perché - aggiunge la religiosa - il muro ostacola seriamente l'attività ordinaria dell'ospedale; perché i medicinali debbono essere portati dai pellegrini; perché è impossibile per i medici israeliani fornire un consulto o effettuare un intervento; perché le pratiche burocratiche per portare un bambino a Gerusalemme "spazientirebbero anche Giobbe"; perché le urgenze diventano tragedie; perché la situazione in cui viviamo fa crescere la tensione e perfino la violenza nelle famiglie, già provate dalla disoccupazione e da drammi personali".
L'ospedale vive della carità, dato che i due governi locali non danno nessuna sovvenzione e le famiglie - solo alcune - partecipano con un contributo simbolico. Parte degli aiuti vengono dal "Kinderhilfe Betlehem", un'associazione fondata sempre da padre Schnydrig a Lucerna, parte da fondazioni sparse in Italia (Verona), in Germania e in Austria. Ma "la pioggia benefica" viene soprattutto dai pellegrini, ai quali, dopo l'immancabile visita, guidata da una religiosa, viene affidato "un compito per casa", dicono amabilmente le suore: ricordare i volti dei piccoli di Betlemme e la straordinaria esperienza che si vive in ospedale ogni giorno. La pacifica convivenza tra persone di religione diversa: arabi cristiani e arabi musulmani; pediatri protestanti provenienti dalla Svizzera e dalla Germania; infermieri che si scambiano il favore di copertura dei turni in occasione di qualche festività dell'una o dell'altra religione. Ricordare e pregare "fino a stancare il Signore perché guardi questa terra martoriata". E "nessun pellegrino - attestano le suore - ha consegnato finora il foglio in bianco".

(©L'Osservatore Romano - 7 febbraio 2010)

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