giovedì 10 giugno 2010
La meditazione del cardinale arcivescovo di Colonia per la chiusura dell'Anno sacerdotale: Penitenza e missione nella Chiesa (Osservatore Romano)
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La meditazione del cardinale arcivescovo di Colonia per la chiusura dell'Anno sacerdotale
Penitenza e missione nella Chiesa
«I destinatari della nostra missione sono tutti, ma in modo particolare i poveri. Sono loro i prediletti di Dio e lo stesso Signore affermó che è venuto al mondo per evangelizzare i poveri»: sono parole dell'omelia della messa celebrata questa mattina, 9 giugno, dal cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, in occasione dell'incontro internazionale dei sacerdoti a conclusione dell'Anno sacerdotale. Un'altra messa, sempre stamani, è stata presieduta, nella basilica di San Giovanni in Laterano, dall'arcivescovo segretario della Congregazione per il Clero, monsignor Mauro Piacenza, che ha esortato i sacerdoti «a implorare il dono di quel profondo rinnovamento spirituale che è la ragione stessa dell'Anno sacerdotale celebrato». Le concelebrazioni eucaristiche sono state precedute dalla meditazione del cardinale arcivescovo di Colonia nella basilica di San Paolo fuori le Mura sul tema «Conversione e missione». Della meditazione, trasmessa in diretta nella basilica di San Giovanni in Laterano, pubblichiamo qui di seguito ampi stralci.
di Joachim Meisner
Dobbiamo nuovamente diventare una «Chiesa in cammino verso gli uomini» (Geh-hin-Kirche), come amava dire il mio predecessore, l'allora arcivescovo di Colonia, il cardinale Joseph Höffner. Questo però non può accadere a comando. A ciò ci deve muovere lo Spirito Santo. Una delle perdite più tragiche, che la nostra Chiesa ha subito, nella seconda metà del xx secolo, è la perdita dello Spirito Santo nel sacramento della riconciliazione. Per noi sacerdoti ciò ha causato una tremenda perdita di profilo interiore. Quando dei fedeli cristiani mi chiedono: «Come possiamo aiutare i nostri sacerdoti?», allora sempre rispondo: «Andate a confessarvi da loro!». Laddove il sacerdote non è più confessore, diventa operatore sociale religioso. Nel confessionale il sacerdote può gettare lo sguardo nei cuori di molte persone e da ciò gli derivano impulsi, incoraggiamenti e ispirazioni per la propria sequela di Cristo. La Chiesa è la «Ecclesia semper reformanda», e in essa, sia il sacerdote come il vescovo sono un «semper reformandus» che, come Paolo a Damasco, devono essere sempre di nuovo gettati a terra da cavallo, per cadere nelle braccia di Dio misericordioso, il quale ci invia poi nel mondo. Perciò non è sufficiente che nel nostro lavoro pastorale vogliamo apportare correzioni solo alle strutture della nostra Chiesa, per poterla rendere di una evidenza più attrattiva. Non basta! Ciò di cui c'è bisogno è un cambiamento del cuore, del mio cuore. Solo un Paolo convertito ha potuto cambiare il mondo, non già un ingegnere di strutture ecclesiastiche. Il sacerdote, attraverso il suo essere preso nello stile di vita di Gesù, è così abitato da Lui che lo stesso Gesù, nel sacerdote, diventa percepibile dagli altri. L'ostacolo maggiore per consentire a Cristo di essere percepito, attraverso di noi, dagli altri, è il peccato. Esso impedisce la presenza del Signore nella nostra esistenza e, per questo, per noi non c'è niente di più necessario che la conversione; e questa, anche ai fini della missione. Si tratta, per dirlo in sintesi, del sacramento della penitenza. Un sacerdote che non si trova, con frequenza, sia da un lato che dall'altro della grata del confessionale subisce danni permanenti alla sua anima e alla sua missione. Qui scorgiamo certamente una delle cause principali della molteplice crisi in cui il sacerdozio si è venuto a trovare negli ultimi cinquant'anni. La grazia tutta particolare del sacerdozio è proprio quella che il sacerdote può sentirsi a «casa sua» in entrambi i lati della grata del confessionale: come penitente e come ministro del perdono. Quando il sacerdote si allontana dal confessionale, entra in una grave crisi di identità. Il sacramento della penitenza è il luogo privilegiato per l'approfondimento dell'identità del sacerdote, il quale è chiamato a far sì che egli stesso e i credenti si stringano alla pienezza di Cristo.
Spesso non amiamo questo esplicito perdono. E tuttavia Dio non si mostra mai così tanto come Dio, come quando perdona. Dio è amore! Lui è il donarsi in persona! Egli dà la grazia del perdono. Ma l'amore più forte è quell'amore che supera l'ostacolo principale all'amore, cioè il peccato. La più grande grazia è l'essere graziati (die Begnadigung), e il dono più prezioso è il darsi (die Vergabung), è il perdono. Se non ci fossero peccatori, che avessero più bisogno del perdono che del pane quotidiano, non potremmo proprio conoscere le profondità del Cuore divino. Come mai un sacramento, che evoca così grande gioia in Cielo, suscita così tanta antipatia sulla terra? Cosa preferiamo in realtà: essere peccatori, che Dio perdona, o sembrare di essere senza peccato, vivendo cioè nell'illusione di presumersi giusti facendo a meno della manifestazione dell'amore di Dio? Basta davvero essere soddisfatti di se stessi? Ma cosa siamo senza Dio? Solo l'umiltà di un bambino, come l'hanno avuta i santi, ci lascia sopportare con letizia la disparità tra la nostra indegnità e la magnificenza di Dio. Non è lo scopo della confessione che noi, dimenticando i peccati, non pensiamo più a Dio. Molto più la confessione ci consente l'accesso in una vita dove non si può pensare a nient'altro che a Dio. Andare a confessarsi significa: rendere l'amore a Dio un po' più cordiale, sentirsi dire e sperimentare efficacemente, una volta di più — perché la confessione non è incoraggiamento solo dall'esterno — che Dio ci ama. Confessarsi significa ricominciare a credere — e allo stesso tempo a scoprire — che fino a ora non ci siamo mai fidati abbastanza profondamente e che, per questo, si deve chiedere perdono. Davanti a Gesù ci si sente come peccatori, ci si scopre come peccatori, che vengono meno alle attese del Signore. Confessarsi significa lasciarsi elevare dal Signore al suo livello divino.
Per me, perciò, la maturità spirituale di un candidato al sacerdozio, a ricevere l'ordinazione sacerdotale, diventa evidente nel fatto che egli riceva regolarmente — almeno nella frequenza di una volta al mese — il sacramento della riconciliazione. Infatti è nel sacramento della penitenza che incontro il Padre misericordioso con i doni più preziosi che ha da dare, e cioè il donarsi (Vergabung), il perdono e il farci grazia. Ma quando qualcuno, a causa della sua mancanza di frequenza alla confessione, di fatto dice al Padre: «Tieni per te i tuoi preziosi doni! Io ho non bisogno di te e dei tuoi doni», allora smette di essere figlio, perché si esclude dalla paternità di Dio, perché non vuole più ricevere i suoi preziosi doni. E se uno non è più figlio del Padre celeste, allora non può diventare sacerdote, perché il sacerdote attraverso il battesimo è prima di tutto figlio del Padre, e poi, mediante l'ordinazione sacerdotale, è con Cristo figlio con il Figlio. Solo allora potrà davvero essere fratello degli uomini.
Il passaggio dalla conversione alla missione può in primo luogo mostrarsi nel fatto che io passo da un lato all'altro della grata del confessionale, dalla parte del penitente a quella del confessore. La perdita del sacramento della riconciliazione è la radice di molti mali nella vita della Chiesa e nella vita del sacerdote. E la cosiddetta crisi del sacramento della penitenza non è solo dovuta al fatto che la gente non viene più a confessarsi, ma che noi sacerdoti non siamo più presenti nel confessionale. Un confessionale in cui è presente un sacerdote, in una chiesa vuota, è il simbolo più toccante della pazienza di Dio che attende. Così è Dio. Egli ci attende tutta la vita. Se ci viene in gran parte a mancare questo essenziale ambito del servizio sacerdotale, allora noi sacerdoti cadiamo facilmente in una mentalità funzionalista o al livello di una mera tecnica pastorale. Il nostro esserci, da entrambi i lati della grata del confessionale, ci porta, attraverso la nostra testimonianza, a permettere che Cristo diventi percepibile per il popolo. Per poter perdonare veramente, abbiamo bisogno di tanto amore. L'unico perdono che possiamo realmente concedere, è quello che abbiamo ricevuto da Dio. Solo se abbiamo sperimentato il Padre misericordioso, possiamo diventare fratelli misericordiosi per gli altri. Colui che non perdona, non ama. Colui che perdona poco, ama poco. Chi perdona molto, ama molto. Quando lasciamo il confessionale, che è il punto di partenza della nostra missione, sia da un lato che dall'altro della grata, allora si vorrebbe proprio abbracciare tutti, per chieder loro perdono e questo avviene soprattutto dopo che ci siamo confessati. Con la confessione si ritorna dentro lo stesso movimento dell'amore di Dio e dell'amore fraterno, nell'unione con Dio e con la Chiesa, dal quale ci aveva escluso il peccato.
(©L'Osservatore Romano - 10 giugno 2010)
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1 commento:
Ma chi metteranno a Colonia dopo Gioacchino?
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