giovedì 10 giugno 2010

Verso la conclusione dell'Anno sacerdotale: Il prete e le sfide pastorali. Il commento di Mons. Rino Fisichella (Osservatore Romano)


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Verso la conclusione dell'Anno sacerdotale

Il prete e le sfide pastorali

«L'Anno sacerdotale è stato veramente una preziosa grazia per la Chiesa. Dobbiamo ringraziare molto Dio per le tante iniziative in favore del bene spirituale dei presbiteri e del loro ministero che sono state realizzate dappertutto in quest'anno, che adesso si sta per concludere. Tuttavia, conclusione non significa termine ma nuovo inizio, con nuovo ardore e con nuove energie spirituali per i sacerdoti e per la Chiesa nel suo insieme». Con queste parole il cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero, ha tracciato un primo sintetico bilancio dell'Anno sacerdotale che si concluderà il 10 giugno prossimo. L'occasione è stata la messa celebrata al termine del convegno organizzato, nel pomeriggio di martedì 8, presso il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum, dal titolo «A immagine del Buon Pastore». Tra i relatori il cardinale prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Antonio Cañizares Llovera, e l'arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, del cui testo, sul tema «Sfide pastorali odierne nella vita di un sacerdote», presentiamo di seguito ampi stralci.

di Rino Fisichella

Quando si parla di sfide pastorali, normalmente, si pensa ad affrontare quanto il mondo pone dinanzi a noi come una provocazione. Questo è vero solo in parte. Le prime sfide che siamo chiamati a comprendere e a cui è necessario dare una risposta provengono direttamente all'interno della Chiesa e del nostro essere sacerdoti. Solo nella misura in cui saremo capaci di accettare e fare nostre queste sfide, solo allora saremo anche in grado di vedere come reali le sfide che il mondo pone e che la cultura di oggi rende sempre più manifeste come espressioni di grandi cambiamenti che richiedono il nostro apporto. La prima sfida, quindi, è nell'ordine della verifica del nostro essere sacerdoti nel mondo di oggi per comprendere a pieno la portata della vocazione di cui siamo stati fatti oggetto. Il sacerdozio, infatti, non è una conquista umana o un diritto individuale, come molti oggi pensano, ma dono che Dio compie a quanti ha deciso di chiamare per restare con lui nel servizio alla sua Chiesa. Perdere di vista questa dimensione vocazionale equivarrebbe a equivocare tutto e fare del sacerdote un impiegato e non un uomo che svolge un ministero nel segno della piena gratuità. Accogliere questa considerazione permette di mettere in relazione il sacerdote, in primo luogo, con la realtà che lo pone in essere: l'eucaristia. La vera sfida consiste proprio nel comprendere noi stessi in relazione al mistero che celebriamo e che fa di ognuno di noi un sacerdote di Cristo. L'eucaristia permane come un dono inestinguibile che è stato fatto alla Chiesa e a ognuno di noi singolarmente; per questo è dovuto il rispetto e la devozione, senza mai pretendere che possiamo gestire il mistero di cui siamo servi come fossimo dei padroni. Tutto il nostro ministero deve essere caratterizzato dal mettere in primo piano non noi stessi e le nostre opinioni, ma Gesù Cristo. Se nell'azione liturgica — che è l'elemento peculiare del nostro ministero — noi diventassimo i protagonisti, contraddiremmo la nostra stessa identità sacerdotale e renderemmo vano il nostro ministero. Noi siamo «servi» e la nostra opera può essere efficace nella misura in cui rimanda a Cristo e noi veniamo percepiti come docili strumenti nelle sue mani per collaborare con lui alla salvezza.
Vivere del mistero eucaristico porta ad accogliere un'altra sfida, soprattutto se confrontata con il profondo individualismo del mondo contemporaneo, quella della communio che siamo chiamati a vivere tra noi. Formare l'unum presbyterium intorno al vescovo, per vivere di un amore vero e reale che sull'esempio del Maestro si realizza in una donazione piena e totale di sé a tutti, senza nulla chiedere in cambio. Lasciare tutto per vivere insieme al Maestro in un amore celibe che sa riconoscere quanti sono nel bisogno e nella solitudine per andare a tutti incontro. Ma questa comunione che siamo chiamati a vivere ci riporta di nuovo al tema precedente; è, in prima istanza, comunione con il «Corpo di Cristo». La «vita», per usare il termine pregnante dell'evangelista Giovanni (1 Giovanni, 1, 2), si è fatta visibile e ora è posta nelle nostre mani nel segno del pane eucaristico; noi sacerdoti diveniamo per questo capaci di atti che superano la nostra stessa esistenza personale, perché agiamo in persona Christi. In altre parole, deve essere forte in noi la convinzione di esserci «rivestiti di Cristo», e per questo capaci di uno stile di vita nuovo che rende evidente a tutti che viviamo per un Altro e lo vogliamo rendere visibile in noi.
A partire da qui emergono altre sfide, questa volta a livello culturale, che richiedono una preparazione corrispondente per non apparire come incapaci nel saper dare una risposta agli uomini del nostro tempo. L'icona dei discepoli di Emmaus può essere significativa. L'evangelista accenna al fatto che stavano discutendo di quanto era accaduto in quei giorni durante i quali la loro speranza nel compimento della promessa antica sembrava svanita. L'avvicinarsi di Gesù non destò particolare stupore; all'epoca era normale che i viandanti si accostassero per compiere il tragitto insieme e così scambiare qualche chiacchiera per rendere meno faticoso il cammino. I loro occhi, tuttavia, erano incapaci di riconoscere il Risorto e la domanda che questi pone loro su quanto stessero discutendo provoca nei discepoli la reazione conosciuta: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?» (Luca, 24, 18). L'espressione può essere facilmente applicabile a quanto si assiste spesso anche ai nostri giorni. La stessa domanda si potrebbe fare a tanti sacerdoti per chiedere loro se realmente sono consapevoli di quanto sta accadendo in questo frangente della storia nella quale siamo chiamati a svolgere il ministero in nome della Chiesa. Figli del nostro tempo, condividiamo le stesse aspirazioni e spesso le medesime forme di indifferenza. È necessario, per questo, avere una conoscenza profonda del proprio tempo e dei movimenti culturali che ne determinano gli stili di vita. Una cosa è costantemente verificabile nei duemila anni del cristianesimo: l'attenzione permanente che la comunità cristiana ha avuto nei confronti del tempo in cui viveva e del contesto culturale in cui veniva a inserirsi. Una lettura dei testi degli apologeti, dei Padri della Chiesa e dei vari maestri e santi che si sono succeduti nel corso di questi duemila anni mostrerebbe con estrema facilità l'attenzione al mondo circostante e il desiderio di inserirsi in esso per comprenderlo e orientarlo alla verità del Vangelo. Alla base di questa attenzione vi era la convinzione che nessuna forma d'evangelizzazione sarebbe stata efficace se la Parola di Dio non fosse entrata nella vita delle persone, nel loro modo di pensare e d'agire per chiamarle alla conversione.
Ritengo che una prima considerazione verta sul tema del profondo «cambiamento culturale» che stiamo vivendo. A livello d'analisi dei movimenti culturali sappiamo cosa stiamo lasciando alle nostre spalle, ma non sappiamo ancora con chiarezza verso dove stiamo andando. Se il passato si lascia descrivere con qualche sicurezza, anche se non senza difficoltà, il futuro, invece, rimane ancora avvolto nell'oscurità dell'ipotetico. Si conclude l'epoca della modernità che fino a oggi, nonostante tutto, non riusciamo ancora a definire con contorni chiari e stiamo andando verso la postmodernità, che già dal suo nascere porta con sé l'ambiguità del concetto proprio per avere assunto un termine che manca ancora di chiarezza. Ciò a cui stiamo assistendo, di fatto, è un cambiamento epocale che parte dalla trasformazione dei concetti paradigmatici su cui si è costruita un'intera civiltà per millenni. Si dovrebbe riflettere, infatti, sul cambiamento progressivo — che sembra possedere, purtroppo, i tratti dell'inarrestabilità — di alcuni concetti quali: natura, uomo, diritto, giustizia, verità, bellezza, legge... e dobbiamo aggiungere anche quello di «dio». Perso il suo antico referente con l'intangibilità della natura, diventata ormai un laboratorio aperto a ogni forma di sperimentazione, l'uomo contemporaneo ha cambiato il suo modo di porsi dinanzi a essa, modificandone il concetto stesso. La natura viene sempre più interpretata come pura materia manipolabile, soggetta alla sola determinazione e volontà del ricercatore; essa non suscita più timore ma curiosità. La stessa cosa è per gli altri concetti a cui si è fatto riferimento. Se l'uomo stesso è soggetto alla manipolazione genetica e la sperimentazione sulla cellula umana continuerà con l'attuale rincorsa non solo nella giusta ricerca di evitare e poter debellare diverse patologie, ma in una clonazione o selezione eugenetica che già si applica sull'embrione, quale definizione dell'uomo daremo nei prossimi decenni? Il moltiplicarsi delle richieste di nuovi diritti individuali che si vogliono imporre alla società, anche contro la stessa legge naturale, a cosa condurrà nella comprensione del diritto e per conseguenza, della famiglia, della sessualità e della società? Non è escluso da questo processo neppure il concetto per noi intangibile di Dio. In un contesto come quello attuale spesso segnato da un confuso confronto con le religioni a cui, a volte, è sotteso un inevitabile sincretismo, a quale idea di «dio» si farà riferimento nel prossimo futuro?
Un'ulteriore sfida che ritengo debba essere presa in considerazione riguarda il grande tema della verità. Un ministro della Chiesa dovrebbe sempre avere sotto gli occhi l'espressione Romano Guardini: «Chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende. Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può essere difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e pericoli; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di incondizionato, che possiede altezza». La quaestio de veritate non è un trattato di altri tempi né un reperto archeologico da lasciare nei magazzini per la rincorsa a un politically correct che impone di evitare ogni chiarezza — sia essa di carattere teologico o dottrinale — e per appiattire il tutto nella superficialità dei luoghi comuni o dei sentimenti maggiormente diffusi. La verità permane certamente come una quaestio che chiede d'essere sottoposta al vaglio della ragione per portare ancora una ricchezza di sapienza all'interno del vivere personale e sociale. Un primo interrogativo a cui dare risposta, in ogni caso, può essere formulato così: è proprio necessario, in questi tempi, parlare di verità? Di fatto facciamo esperienza di un tempo di povertà, di disagio, di mancanza di fiducia nella possibilità di accedere alla verità e, a farne le spese è in primo luogo la religione. Sempre meno troviamo forme tese a mostrare la fede come la risposta definitiva alla domanda di senso, mentre si moltiplicano le forme per evidenziare la non assurdità della fede; di rado vediamo presentare la fede come una radicale novità di vita che richiede la conversione, mentre ci si adagia sul fatto di un cristianesimo anonimo che tutti contiene senza nessuno disturbare; insomma, si preferisce sottacere le differenze, lasciare in ombra i conflitti, smussare gli spigoli. In breve, si ha paura di misurarsi fino in fondo con il problema della verità. La paura per la verità pervade spesso i nostri ragionamenti, obbligandoci a una sorta di strabismo: nella sfera privata conveniamo sulla crisi del tempo presente, mentre in pubblico si preferisce vestire gli abiti più opportuni della tolleranza. Senza verità, però, la vita sarebbe relegata in uno spazio effimero e il rischio di un sopruso del violento sul debole sarebbe sempre all'erta. La verità si inserisce per sua stessa natura all'interno di uno spazio di umanizzazione che crea progresso e permette lo svolgimento coerente dell'esistenza personale. Se anche il sacerdote, malauguratamente, perdesse la passione per la verità, allora la sua azione pastorale come la sua predicazione sarebbero condannate all'insignificanza.

(©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)

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