domenica 20 giugno 2010

Ai microfoni di Radio Vaticana, la testimonianza di uno dei nuovi sacerdoti della diocesi di Roma, don Davide Martini


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Il Papa: "Chi aspira al sacerdozio per un accrescimento del proprio prestigio personale e del proprio potere ha frainteso alla radice il senso di questo ministero. Chi vuole soprattutto realizzare una propria ambizione, raggiungere un proprio successo sarà sempre schiavo di se stesso e dell’opinione pubblica. Per essere considerato, dovrà adulare; dovrà dire quello che piace alla gente; dovrà adattarsi al mutare delle mode e delle opinioni e, così, si priverà del rapporto vitale con la verità, riducendosi a condannare domani quel che avrà lodato oggi. Un uomo che imposti così la sua vita, un sacerdote che veda in questi termini il proprio ministero, non ama veramente Dio e gli altri, ma solo se stesso e, paradossalmente, finisce per perdere se stesso" (Monumentale omelia)

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Ai nostri microfoni, la testimonianza di uno dei nuovi sacerdoti della diocesi di Roma, don Davide Martini

Tra i diaconi ordinati dal Papa, nella Basilica di San Pietro, c'è anche don Davide Martini, romano di 32 anni, che al microfono di Marco Guerra racconta la sua esperienza nel Seminario Romano Maggiore e si sofferma sull’avvincente sfida del sacerdozio:

R. – Il seminario, credo sia importante definirlo, come anche l’ha definito il Papa, non tanto uno spazio, un luogo, quanto un tempo. E' quel tempo abbastanza lungo – sono comunque sei anni – durante i quali il seminarista, il giovane che pensa di avere la vocazione, la verifica e la verifica fondamentalmente cercando di stare più tempo possibile con Dio. E' in questa frequentazione che poi non soltanto riesce a mettere a fuoco la propria relazione con Dio, ma mette a fuoco anche molto di se stesso. Ci si conosce molto di più, stando in seminario, perché si ha modo anche di lavorare su se stessi e tutto questo lavoro, tutta questa conoscenza sono portati avanti e vissuti alla luce del rapporto con Dio. Quindi, fondamentalmente, alla fine, più che descrivere le tante cose che si fanno, è il come si fanno, come si cerca di farle. E’ un tempo in cui si cerca di stare più tempo con Dio per scoprire se c’è stata questa chiamata, per cercare di capire come ognuno di noi possa rispondere a questa chiamata con tutto se stesso.

D. – Come hai vissuto i giorni di vigilia dell'Ordinazione?

R. – Fondamentalmente, nella preghiera. Abbiamo "staccato" dai preparativi dei festeggiamenti della prima Messa, dei parenti che vengono, degli amici che ti cercano e ci siamo presi un tempo per poter stare con il Signore; nella preghiera rivedere il perché di questa nostra chiamata, il fatto che non è per nostro merito che siamo stati chiamati e che fondamentalmente siamo indegni. Però, il Signore ha voluto chiamarci e noi, con gioia, abbiamo risposto.

D. – Il tuo rettore, mons. Tani, ha parlato del sacerdozio come una sfida...

R. – Il sacerdozio è una sfida perché il sacerdote è l’uomo dell’oltre, è l’uomo che mostra l’oltre, perché vive con Cristo, unito a Cristo, sperimentando in parte ciò che sarà poi per tutti quanti quando saremo uniti a Dio. E questa è una grande sfida, perché il mondo, invece, è un mondo del presente, dell’immediato: o non accetta, o ha paura dell’oltre. Quindi credo che la sfida grande sia questa: riuscire a testimoniare che c’è un oltre ma che quest’oltre, però, è così vicino a noi che cammina con noi, che ci sorregge, che ci aiuta, che è per noi.

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