giovedì 12 agosto 2010

Quei principi laici della Chiesa (Filippo Di Giacomo)


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Su segnalazione di Eufemia leggiamo:

Quei principi laici della Chiesa

Filippo Di Giacomo

Qualcuno, nella neonata formazione parlamentare finiana, ha rilanciato la questione della presunta difesa della laicità dello Stato (principio che la cultura cattolica non solo riconosce ma ritiene indispensabile) proponendola nella solita glossa: riconoscimento delle unioni di fatto, legge sul fine vita, abolizione della legge 40... In realtà, la proposta ferragostana dell’onorevole Della Vedova è sembrata più una manovra diversiva che una sfida alla politica dell’attuale maggioranza. Oltretutto, quanto potrebbe rendere in termini elettorali il continuo reiterare di temi proposti e mai oggettivamente discussi a livello sociale è un enigma che, nelle ultime tre elezioni politiche, nessun analista è riuscito a decriptare.
Per questo, aver visto qualche quotidiano nazionale titolare che la proposta “laica” delle truppe finiane preoccupava il solito Vaticano ha fatto sorridere nei cosiddetti sacri palazzi. Non solo perché negli scenari del mondo contemporaneo, una politica che si inceppa a colpi di muse ispiratrici e cognati affaristi più che preoccupare fa appunto ridere, ma anche perché, stando ai rapporti della Caritas e alla valanga di lettere inviate a Famiglia Cristiana e ad Avvenire, la Chiesa che è in Italia di cose di cui preoccuparsi urgentemente ne vede tante, certamente più dell’onorevole Benedetto Della Vedova. E per predisporsi ad agire efficacemente di fronte alle sfide che ci coinvolgono, il cardinale Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente dei vescovi italiani, ha suggerito che lo Stato si difende innanzitutto praticando di più la moralità nella vita individuale e in quella sociale. L’ottima raccomandazione, potrebbe anche rappresentare un pacifico primo passo per un effettivo ritorno ad una cultura condivisa tra i cattolici del nostro Paese. Ai quali, magari, si potrebbe spiegare (soprattutto a quel 25-30 per cento che si sentono esclusi dalla vita ecclesiale per le loro vicende esistenziali) con parole più semplici i contenuti dei “grandi valori” per i quali è bene vivere e persino morire. Così apprenderebbero che, per la loro Chiesa, separarsi e divorziare non è necessariamente sempre peccato, che essere omosessuali non significa essere fatalmente immorali, e che certe pantomime celebrate nelle chiese-matrimonifici potrebbero essere ricondotte nel reale ambito della pastorale senza danno per la fede di alcuno.
Stiamo riassumendo il senso dell’ultima intervista che il cardinale Pompedda, uno dei tre-quattro ecclesiastici che nella Roma del post Concilio si potevano vantare a giusto titolo di essere maestri nel diritto canonico, aveva rilasciato prima della malattia che lo avrebbe condotto alla morte. Coloro che lo hanno avuto come maestro sanno benissimo che Mario Francesco Pompedda non era un trinariciuto progressista. Era uno di quei porporati che, un tempo, costituivano la gloria della curia romana perché la facevano così tanto risplendere di scienza e coscienza che, si diceva, di fronte a ogni problema quando «Roma locuta est, causa finita est».
Per restare nel campo dei cattolici italiani divorziati risposati, nella sua intervista a Peeter Sewald l’allora cardinale Ratzinger, nel 1996, si augurava che si giungesse «ad una constatazione extragiudiziale della nullità del primo matrimonio. Questa potrebbe forse essere constatata da chi ha la responsabilità pastorale sul luogo». Sulla stessa linea il cardinale Pompedda esemplificava: «in virtù delle innovazioni introdotte nel vigente codice (di diritto canonico), si potrebbe arrivare a dichiarare nullo un matrimonio senza che ci siano testimoni o altre prove ma sulla base delle sole dichiarazioni delle sole parti». Questa, per intenderci, è già la strada seguita dai tribunali ecclesiastici statunitensi e da quelli che fanno riferimento alla Rota di Madrid e a quella di nuovo attiva presso la curia dell’arcivescovo primate d’Ungheria. Ed è come dire che quando parliamo di convivenze e fatti connessi, i cattolici farebbero meglio a gettare uno sguardo su ciò che nella loro Chiesa avviene realmente, prima di sentirsi “esclusi” oppure “immorali”.
Della Chiesa si dice che è presbite e miope allo stesso tempo: vede benissimo da lontano e fa fatica a guardare ciò che è vicino. Così è stato anche per il codice di diritto canonico. Da lontano, cioè negli anni della revisione, il legislatore canonico ha affrontato in almeno due canoni il problema delle convivenze di fatto. Sono il canone 1071 paragrafo 1 numero 3 dove si proibisce la celebrazione del matrimonio da chi è vincolato da obblighi naturali con conviventi e figli da loro avuti e il canone 1095 dove la vita in comune e il concubinato pubblico e notori tra due persone costituisce impedimento per la celebrazione del matrimonio con una terza parte. Come e quando questi “diritti naturali” che la Chiesa riconosce alle convivenze di fatto debbano trovare una traduzione pratica nel diritto civile, non lo deve dire la Chiesa.

© Copyright L'Unità, 11 agosto 2010 consultabile online anche qui.

1 commento:

sonny ha detto...

Buongiorno Raffaella. Ti segnalo:

http://www.avvenire.it/Commenti/editoriale+sequeri+martirio_201008120612499400000.htm