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Medio Oriente: la pace ha bisogno dei cristiani
«Macché minoranza, siamo di prima classe»
di Giorgio Bernardelli
È uno degli osservatori più attenti rispetto a ciò che si muove (nel bene ma anche nel male) nelle società del Medio Oriente. Non ha mai esitato a descrivere i pericoli del fondamentalismo islamico. Ma il gesuita islamologo padre Samir Khalil Samir, libanese, è soprattutto un cristiano arabo che sente chiara quella vocazione «alla comunione e alla testimonianza» che il Sinodo che si aprirà domenica prossima a Roma richiama fin dal suo tema-guida.
Padre Samir, è giusto parlare di un Sinodo sulle minoranze cristiane in Medio Oriente?
«Sul termine minoranza bisogna intendersi. Noi cristiani del Medio Oriente non accettiamo di essere considerati una minoranza etnica. Sarebbe assurdo: siamo qui da prima dell’islam, non siamo gente venuta da fuori. E dunque non chiediamo nessuna protezione: siamo cittadini di prima classe dei Paesi dove viviamo ed esigiamo di essere riconosciuti come tali. Siamo invece una minoranza dinamica, nel senso che proprio per le nostre specificità portiamo qualcosa di diverso dentro ai nostri Paesi. È stato il nostro ruolo di ponte con l’Occidente a far entrare in circolo anche in Medio Oriente concetti come quelli di diritti umani, uguaglianza tra uomo e donna, libertà di coscienza... Ma questo implica per noi la consapevolezza di un ruolo, una missione che resta quanto mai attuale».
È una missione che, però, deve fare i conti con una presenza che si assottiglia per via dell’emigrazione legata alle difficili condizioni di vita per i cristiani.
«Il rischio di veder sparire i cristiani da alcuni Paesi del Medio Oriente è assolutamente reale. Da questi Paesi dove sperimentano la guerra, l’ingiustizia, il mancato rispetto dei diritti umani, chi può se ne va. Trent’anni fa in Libano i cristiani erano il 50% della popolazione; oggi sono il 38% (se non addirittura di meno). In Iraq prima della guerra erano un milione, oggi non arrivano a 350 mila. Se questa tendenza continuasse sarebbe una tragedia. E non tanto per i cristiani, ma per i loro Paesi. Perché l’esperienza dice che nei Paesi in cui emigrano i cristiani arabi riescono a costruirsi un futuro. Ma il problema è il vuoto che lasciano dietro di sé: un impoverimento di tutto il Medio Oriente».
Uno dei temi cruciali oggi nelle società del Medio Oriente è il rapporto tra tradizione e modernità. Che cosa potrà dire il Sinodo in proposito?
«Il cristianesimo in Medio Oriente è stato sempre portatore di novità. Guardiamo alla stessa epoca d’oro dell’islam: si parla del contributo che la civiltà arabo-musulmana ha portato alle scienze, alla medicina, alla filosofia. Ma da dove viene questo contributo? Dall’ellenismo, che nel mondo arabo ci è arrivato grazie ai cristiani. Le conoscenze di Ippocrate e Galeno le hanno trasmesse loro, tanto è vero che i medici dei califfi erano in gran parte cristiani. E poi la Logica e la Metafisica di Aristotele in arabo sono state tradotte dal siriaco, non dal greco. Anche in tempi più recenti, poi, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, i cristiani sono stati protagonisti nella breve stagione del Rinascimento arabo».
E oggi?
«Il mondo islamico attuale è incapace di affrontare la modernità. La teme, perché la vede andare nella direzione di una secolarizzazione che conduce dritta all’ateismo. Vorrebbero la tecnologia (lo stesso terrorismo musulmano è iper-tecnologico) ma senza il pensiero critico. Il punto vero è che l’islam non ha integrato la modernità nel suo pensiero religioso: il musulmano alla fine ripete certezze. Invece il cristianesimo ha osato assumersi il rischio di un confronto con la modernità. E ribadire nel Sinodo questa idea sarà fondamentale».
Però nell’«Instrumentum laboris» non mancano accenti preoccupati rispetto al fenomeno della secolarizzazione: anche tra i cristiani del Medio Oriente si parla della difficoltà di trasmettere la fede ai giovani.
«Sì. Ma il punto è che qui ci collochiamo in un ambito diverso: quello della critica rispetto alle derive del mondo secolare. Noi non rigettiamo in toto la modernità; invitiamo all’incontro tra fede e ragione. Era propria questa la sostanza del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona. Non ci lasciamo ingabbiare in una prospettiva per cui diventa razionale solo ciò che è fisico. Ma questa è un’altra cosa rispetto al bandire ogni possibilità per la ragione critica di indagare la fede».
Il Sinodo che si aprirà domenica avrà un volto «plurale» per via della presenza di Chiese, gerarchie e riti tra loro diversi.
«In Oriente c’è una varietà di tradizioni spirituali e culturali che è poco conosciuta. Eppure è anche questo un contributo che completa la cattolicità della Chiesa. La tradizione orientale non è una, ma molteplice. La liturgia etiopica – tanto per citarne una – deriva sì da quella copta, ma ha specificità che sono solo sue. E sono una ricchezza per tutti».
In che modo?
«Prendiamo il tema del digiuno. Nella tradizione occidentale è praticamente sparito, ma questa dimensione della vita cristiana è ancora fortissima in Oriente. Il calendario della Chiesa copta comprende circa 200 giorni di digiuno all’anno. E lo praticano sul serio. Non è solo un gesto: ha dietro tutta una spiritualità sulla forza interiore di fronte alle difficoltà».
Il Sinodo viene a coincidere con giorni delicatissimi per il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Come leggere questa concomitanza?
«È proprio in rapporto al tema della violenza e della pace che emerge con chiarezza tutta l’originalità della visione cristiana. Noi difendiamo la giustizia ovunque e per tutti. Gli altri invece dicono: questa terra è degli ebrei o questa terra è musulmana. Avremmo anche noi delle ragioni per dire che Gerusalemme è cristiana. Eppure noi non la rivendichiamo come una nostra proprietà: chiediamo giustizia per tutti. Distinguiamo il piano della politica da quello della religione. Ecco perché anche su questo tema cruciale noi cristiani abbiamo un ruolo fondamentale in Medio Oriente. Anche se non è apprezzato come meriterebbe».
© Copyright Avvenire, 3 ottobre 2010
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