sabato 2 ottobre 2010

Domani il Papa a Palermo. Intervista a Mons. Romeo: Da una fede antica un nuovo futuro (Ponzi)

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A colloquio con l'arcivescovo Paolo Romeo

Da una fede antica un nuovo futuro

di Mario Ponzi

L'immobilismo è il male oscuro della Sicilia, "una terra che spera e che è disperata", che "si rinnova per restare vecchia".
E Palermo - "una polveriera sulla quale è seduto un popolo stremato" - ne è lo specchio: crudele, forse, ma fedele di una regione "strangolata dalla disoccupazione", afflitta "dall'emergenza casa", ostaggio di una società "dilaniata da rancori personali". Terreno fertile per la seminagione della mafia, "unica realtà che non soffre di immobilismo".
"Ma la Sicilia vera non è questa". Lo dice con tono accorato l'arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, dopo aver rivisitato con noi la cartolina che rilancia nel mondo l'immagine di una città tradita nel fondo della sua pur nobile anima. Nell'intervista rilasciata al nostro giornale, alla vigilia dell'arrivo del Papa, l'arcivescovo parla di un popolo fatto di gente semplice, spesso senza voce, ma accogliente e ostinatamente aperta alla speranza, in virtù della sua fede, antica e genuina, dalla quale "saprà trarre - ne è sicuro monsignor Romeo - la forza per cambiare quello che sembra essere un futuro oscuro".

È un futuro che passa attraverso la famiglia e i giovani, non a caso le due realtà appena convocate a convegno proprio qui a Palermo alla vigilia dell'arrivo del Papa. Cosa ci si aspetta da questo momento forte?

Sono tre anni che stiamo studiando le problematiche legate alla famiglia e soprattutto ai giovani. Ci siamo chiesti in particolare perché mai l'annuncio della fede non raggiunge più i giovani; o meglio, perché i giovani non fanno parte di quella cerchia di persone alle quali si riesce a trasmettere il messaggio cristiano. La nostra risposta è stata questa: bisogna chiamare i giovani in modo giovane, cioè rispondente a quelli che sono i loro parametri.

Che cosa significa in pratica?

Significa coinvolgerli in cose concrete. Hanno bisogno di proposte forti, che non siano solo celebrative ma lascino spazio alla partecipazione attiva a un progetto. Benedetto XVI - così come aveva già fatto Giovanni Paolo II proprio qui in Sicilia - avanza a questi giovani proposte concrete. Quando parla di nuova evangelizzazione, fa capire che non si tratta di diffondere un nuovo Vangelo, ma di diffondere lo stesso messaggio evangelico di sempre in modo nuovo, più rispondente alle esigenze dell'uomo di oggi. Avere in mezzo a loro di nuovo il Papa sicuramente darà ai nostri giovani una scossa decisiva per andare avanti, senza timore di essere traditi ancora nelle loro aspettative.

E per quanto riguarda la famiglia?

Vive la stessa situazione critica del resto del Paese, dell'Europa e del mondo. Anche se abbiamo a che fare con una realtà che qui ha risvolti un po' diversi. Generalmente a mettere in crisi un matrimonio è la prevaricazione dell'io sul noi della coppia. In Sicilia questo aspetto, potremmo dire, "individualistico" non ha tanta incidenza. Ciò è dovuto in gran parte alla storia e alla cultura stessa del popolo siciliano. Non dimentichiamo che si tratta di gente di origine contadina, abituata da sempre a trarre il sostentamento dal duro lavoro nei campi, al quale, in un certo senso, partecipava ciascun membro della famiglia. Tutti, dunque, erano in grado di apprezzare la fatica fatta insieme, la condivisione. Questi valori sono stati messi poi a dura prova dalla instabilità, quando non addirittura dalla mancanza del lavoro, e dalle difficoltà ad accedere a un'abitazione dignitosa: in una parola, dall'impossibilità di progettare un futuro di speranza. In Sicilia è la situazione sociale a trascinare nella spirale della crisi anche la famiglia.

La storia della Sicilia ha offerto spesso un'immagine ambivalente della donna: persona che sa ma tace o esemplare testimone di coraggio nel difendere i suoi valori più cari. Quale ruolo prevale oggi?

Nella vita della Chiesa in Sicilia la donna ha avuto sempre un ruolo importante, a volte predominante. Basti pensare a sante come Lucia, Agata e all'amatissima "Santuzza", Rosalia. Indubbiamente la loro eredità continua a rappresentare una ricchezza per tutto il popolo. Nella Chiesa il valore delle donne è indiscutibile, anche se il loro contributo è poco visibile dall'esterno. Nelle parrocchie i nostri catechisti sono per la maggior parte donne e in tutte le famiglie sono proprio le mamme a insegnare ai figli le prime nozioni del catechismo. Ma non solo: nella nostra facoltà teologica figurano tante brave docenti, molte delle quali hanno consacrato la loro vita alla ministerialità della Parola.

E nella società?

Qui la storia è un po' più complessa. La nostra società è prevalentemente impiegatizia, non industrializzata. Scarseggia l'imprenditoria e, di conseguenza, c'è poco spazio per valorizzare il talento delle donne. Di contro, è proprio la donna a subire per prima i riflessi della crisi economica: è lei che fa la spesa e che, alla fine, deve far quadrare i conti. In questi ultimi anni però registriamo una tendenza pericolosa. In passato difficilmente le donne era invischiate in vicende di mafia, e se lo erano, il loro ruolo era solo marginale. Oggi invece il loro coinvolgimento nel fenomeno malavitoso è sempre più diretto.

E come se lo spiega?

Credo che derivi soprattutto dalla loro collocazione all'interno della società. La donna è tenuta al margine della vicenda pubblica, difficilmente entra nella sfera della politica, se non con rare eccezioni: e dunque - per dirla in gergo - è sostanzialmente "fuori dal Palazzo". Per la verità ci sono diversi ambiti nei quali il ruolo della donna è determinante. Penso soprattutto al mondo della scuola.

Il riferimento al "Palazzo" compare spesso nelle sue dichiarazioni, così come nelle sue omelie in particolari circostanze.

Il mio riferimento non vuole essere assolutamente una critica rivolta contro qualcosa o contro qualcuno, solo un appello accorato a chi tiene le redini della nostra società. Palermo è una polveriera sulla quale è seduto un popolo stremato. E non c'è nessuno che si prenda effettivamente cura di lui. Ma chi potrebbe farlo? In pochi mesi il governo della Regione è cambiato quattro volte. E non si è trattato di piccoli aggiustamenti, di sostituzione di assessori, è sempre cambiato tutto, in modo radicale. Come si può governare così? Potrebbe guarire un malato grave se ogni settimana cambiasse medico e cure? È quello che capita in Sicilia: il potere politico in continua mutazione perde contatto con la base e non sa più di cosa essa ha bisogno. Non solo non fa in tempo a realizzare progetti, ma neppure a programmarli. Da due anni, nonostante la gravità della disoccupazione - che ha superato ormai il 30 per cento - restano inutilizzati i fondi messi a disposizione dalla comunità europea. Ma non per alchimie politiche, e questo è ancor più grave. Qui si cambiano Governi come fossero schede telefoniche, passando cioè da un operatore a un altro a seconda delle offerte proposte. Ma della gente chi si preoccupa? Mancano case, mancano terreni sui quali realizzare l'edilizia popolare. Eppure in diecimila attendono una casa. Quando riusciranno a ottenerla? Neppure i morti hanno più la certezza di un posto in cui riposare: da trent'anni la città aspetta un nuovo cimitero e non ci sono più loculi disponibili. C'è una paralisi amministrativa senza precedenti. Non si riesce ad approvare un bilancio comunale perché si litiga continuamente.

Così non si va lontano.

Non si va nemmeno vicino. Anzi si torna indietro. Evocando lo spettro della crisi stanno chiudendo quelle poche fabbriche che c'erano e persino gli storici cantieri navali. E pensare che si tratta di siti molto importanti. È stata appena ultimata la costruzione della più grande piattaforma per l'estrazione del petrolio dal mare, commissionata da Paesi nordici per la trivellazione nell'Artico. È stata fatta interamente nei nostri cantieri, gli stessi che da domani saranno destinati solo alla riparazione delle navi, a togliere magari un po' di ruggine dai ponti, e in conseguenza si prospetta il taglio di mille posti di lavoro: sui poco più dei duemila attuali significa una riduzione del 50 per cento.

Lei non ha esitato a denunciare questo stato di cose, legando certi fenomeni alla politica, al mondo degli affari, alla paura che si insinua nella gente.

La paura è figlia dell'immobilismo più che della criminalità. L'illegalità che si registra in Sicilia non è poi tanto dissimile da quella delle altre regioni. Pensi alla rete di criminalità collegata al consumo della droga, che nel milanese, per esempio, è doppio rispetto alla nostra isola. Cosa dire poi del fenomeno della prostituzione? La conquista di un angolo di strada dove vendersi non è forse il frutto di un accordo tipicamente mafioso? Così come lo è addirittura l'assegnazione dei semafori ai lavavetri o di una pompa di benzina nelle ore di self service. Il fatto è che in altre grandi città non ci sono solo questi fenomeni. Ci sono tante possibili attività legali da svolgere; c'è una fiorente attività commerciale fatta anche di bancarelle; c'è l'imprenditoria locale; ma soprattutto c'è un'amministrazione che è comunque presente, si muove, in un senso o nell'altro, ma opera. A Palermo no. Tutto è fermo. Domina l'immobilismo. L'unica organizzazione attiva è la mafia. E quel 30 per cento di giovani disoccupati rappresentano prima di tutto una facile preda da conquistare.

Ma come può la Chiesa continuare a parlare di speranza di fronte a quella vena sottile di fatalismo che attanaglia tanti siciliani e rischia di ingigantirsi sempre di più?

Ci aspettiamo tanta forza dal Papa per continuare a farlo. Ecco perché ritengo fondamentale la sua presenza tra di noi in questo momento drammatico. Sino a oggi a spingerci è stata una frase di don Pino Puglisi che amava ripetere: "Se ognuno fa qualcosa". E poi mostrava spesso l'immagine di un orologio dal quadrante piuttosto enigmatico: non aveva lancette. Voleva ricordare a tutti che la carità cristiana è una carità senza orari. Lo hanno ucciso. Ma i suoi assassini hanno fatto male i conti perché è stato proprio il suo sangue ad alimentare la nostra speranza. Saremo orgogliosi di mostrarla al Papa.

(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2010)

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