giovedì 28 gennaio 2010

Lo stile sobrio e diretto di Benedetto XVI: quel rotolo di preghiera in tedesco nel filo spinato di Auschwitz (Sequeri)


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COME UN ROTOLO DI PREGHIERA NEL FILO SPINATO DI AUSCHWITZ

PIERANGELO SEQUERI

Il rotolo della sua preghiera, contro l’orribile crimine «che la megalomania disumana e l’odio razzista dell’ideologia nazista portarono in Germania», Papa Benedetto XVI l’ha incastrato – in lingua tedesca – nel filo spinato di Auschwitz, i cui cancelli furono dolorosamente aperti, 65 anni fa, sul dolore che vi era stato rinchiuso. Rinchiuso per un tempo infinito che non finirà mai di passare, finché ci sarà storia di uomini.
Papa Giovanni Paolo II, il rotolo della condanna e della supplica lo aveva silenziosamente introdotto nelle ferite del Muro del Pianto, a Gerusalemme.
Il suo, Benedetto XVI lo ha fatto idealmente risuonare dalla spianata del luogo che, nella parlata più comune dei popoli, è il nome-simbolo della Shoah, dell’orrore per il quale non si hanno abbastanza parole. Lo ha fatto nell’idioma e nei suoni della lingua in cui quell’orrore ha trovato parole per concepirsi, comunicarsi, pianificarsi: e questa lingua è la sua propria.
Un simbolo forte, al quale il Papa si è coraggiosamente esposto, con quello stile sobrio e diretto che gli è proprio.
Le parole, a volte, sono anche più potenti e irrevocabili dei gesti. Quello stesso idioma, che ha plasmato la memoria ferita, nomina ora la violenza di quella ideologia sterminatrice come una concentrazione assoluta del male. Siamo colpiti, in questa rinnovata proclamazione dell’orrore, senza reticenze, da un’impressione il cui insegnamento ammonisce e trafigge, con dolorosa esattezza, l’irresponsabile svagatezza del nostro presente. Una lingua materna (materna!) poté essere sfigurata fino a tal punto. E fino a tal punto essere indotta a corrompere e contraddire il senso della generazione all’umano: che proprio l’affettuosa parlata della madre, insostituibilmente, rende umana.
D’improvviso, siamo dolorosamente avvertiti: ogni lingua materna può entrare in questa terribile contraddizione con se stessa. Non ci sono lingue razziste, non ci sono popoli maledetti. Ma le lingue materne possono essere stuprate dalla perversione del cuore e dalla presunzione della mente: rendere familiare persino l’assuefazione al sacrificio dell’inerme, nobilitare l’indecenza dell’ostilità razziale, rendere politicamente corretta la mediocre prepotenza del branco. E lungo questa via, spianare, per intere generazioni, la strada di un 'conflitto di civiltà' che interpreta il genocidio come pulizia etnica e soluzione finale. È terribile soltanto doversi esprimere, con queste parole. Eppure bisogna esporvisi, proprio per dare forza alle opposte parole che, nella stessa lingua, devono ostinatamente richiamare il senso autentico dell’idioma materno: il quale è ferito nell’intimo, con danni irreparabili, tutte le volte che dimentica la fraternità dell’umano che dà senso alla generazione. Una natura umana, comune e condivisa, nella quale siamo generati sin dal grembo materno, esiste. Contraddirla, conduce presto o tardi all’orrore incontenibile e innominabile. I sofismi del superuomo civilizzato, che si fa da sé, si misurino con la memoria dei cancelli di Auschwitz, se gli regge il cuore.
Neanche per un giorno, manchi di risuonare, in ciascuna lingua, la parola «dell’assoluto rispetto della dignità della persona e della vita umana». Perché l’orrore che acceca il mondo e ferma la storia incomincia dalla selezione degli umani. Perché questa non è un’esagerazione della profezia, è il racconto del grande buco nero che si è aperto appena ieri. Fino a che ci saranno padri e madri i quali («persino a rischio della vita») daranno testimonianza della necessità di opporsi a simile 'follia', ciascuno nella propria lingua, la storia di tutti non proseguirà invano. E la generazione non rimarrà a tal punto priva di senso, da non poterlo più ritrovare.
In questo giorno, va detto, per tutti i giorni del mondo. In questa lingua va pronunciato, per tutte le lingue materne del mondo. Compresa la nostra.

© Copyright Avvenire, 28 gennaio 2010

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