venerdì 5 marzo 2010
Il tema della vocazione nell'arte: la chiamata degli apostoli. Caravaggio e il neorealismo fatto con la luce (Timothy Verdon)
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Il tema della vocazione nell'arte: la chiamata degli apostoli
Caravaggio e il neorealismo fatto con la luce
di Timothy Verdon
Dopo il suo battesimo e al ritorno dal deserto delle tentazioni, Gesù rivendicò come sue le parole d'Isaia: "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio" (Luca, 4, 16-19; cfr. Isaia, 61, 1-2). Tale pubblica rivendicazione dell'intervento dello Spirito è fondamentale per ogni discorso sulla Chiesa e sul ruolo dei suoi sacerdoti. Cristo aveva sentito lo Spirito sopra di lui al Battesimo; dallo Spirito egli era stato poi sospinto nel deserto, e - sempre secondo Luca - dopo la tentazione era tornato "in Galilea con la potenza dello Spirito Santo" (4, 14). Dopo il ritorno dichiara poi di intraprendere la sua missione sotto lo Spirito, ed ecco la spiegazione di quanto segue, il successo della sua attività di predicatore e guaritore: in lui tutti sentivano la presenza dello Spirito di Dio. L'influsso dello Spirito è chiaro soprattutto nel primo passo compiuto da Cristo quando cominciò ad annunciare l'imminenza del regno: la chiamata degli apostoli. "Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini". Ed essi, subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedeo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono" (Matteo, 4, 18-22; cfr. Marco, 1, 16-20).
Questo momento è raffigurato in una splendida pala d'altare del veneziano Marco Basaiti, dove l'assoluta autorevolezza di Cristo che chiama, e l'immediata risposta di Giacomo e Giovanni che "subito" gli obbediscono, suggeriscono in modo evidente la presenza dello Spirito Santo. Alla destra e sinistra di Cristo stanno, rispettivamente, Pietro e Andrea che hanno anch'essi accolto l'invito del Salvatore a seguirlo e ora, assieme a lui, ricevono i nuovi arrivati; si tratta quindi di una presenza dello Spirito diffusiva, che crea intorno a Gesù una comunità, il primo nucleo della Chiesa. È questo il vero inizio del ministero pubblico: fu solo dopo la chiamata dei primi discepoli, infatti, che "Gesù andava per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo" (Matteo, 4, 23). L'insegnamento, la predicazione, le guarigioni, benché personali - attribuibili cioè solo a Cristo - tuttavia coinvolgevano altri, fratelli che avevano lasciato tutto per seguire quest'uomo su cui lo Spirito del Signore si era posato.
Non solo i rozzi pescatori del litorale galileano, ma anche personalità più complesse, segnate dal peccato, come san Matteo, accoglieranno la chiamata di Cristo. Giustamente celebre è la Vocazione di san Matteo dipinta dal Caravaggio per la chiesa romana di San Luigi dei Francesi, dall'effetto fortemente teatrale grazie alla larga fascia di luce che scende da destra. La tela occupa un'intera parete laterale della cappella in cui si trova, e l'ambientazione in ciò che sembra un'osteria nonché i costumi contemporanei del gruppo a sinistra dovevano scioccare i tradizionalisti in questa cappella in una chiesa di centro città, dove - vicino all'immagine di un tavolo comune a cui siede il pubblicano Levi con amici di dubbia onestà - viene celebrata la liturgia eucaristica! Cioè, rifiutando il linguaggio aulico del suo tempo, Caravaggio allestisce un'osteria in chiesa, obbligando chi va a Messa a stare gomito a gomito col ragazzo chino sul denaro, dagli abiti scomposti, che sembra ubriaco o drogato; coll'amichetto effeminato di Matteo, che si appoggia familiarmente al futuro apostolo; e al giovane "bravo" visto da tergo, con la spada al fianco e l'abito appariscente. Se per assurdo immaginiamo, accanto all'altare di una chiesa moderna, una grande foto di spacciatori in una discoteca di periferia, possiamo immaginare lo choc per i contemporanei del realismo caravaggesco applicato alla decorazione del luogo di culto!
Si tratta però di una precisa strategia vocazionale, riproponibile oggi, credo. Nella Roma che allora viveva il fermento della Riforma Cattolica - che vedeva nuovi ordini religiosi impegnati nel recupero di casi disperati, offrendo alloggio e istruzione ai ragazzi della strada, aprendo i conventi alle prostitute riformate - il dipinto parlava con singolare forza del potere santificante di Cristo in ogni situazione di vita, perfino nel peccato. Notiamo poi che Cristo e san Pietro, che entrano da destra, dove sta l'altare nella cappella - vestano abiti appartenenti al mondo antico: al loro periodo storico cioè. Il "decoro" religioso viene così tutelato e la drammaticità del momento addirittura intensificata, perché, più di un evento del passato in veste moderna, l'immagine suggerisce come il senso di un evento storico possa irrompere in una situazione attuale - come se Caravaggio dicesse: "Lo stesso Cristo che ha chiamato Matteo mille e seicento anni or sono, oggi chiama altri "pubblicani"; Lui, che non cambia, in ogni tempo chiama i peccatori a cambiare vita".
L'altra importante commissione pubblica del Caravaggio negli ultimi anni del XVI secolo era per due tele alle pareti laterali della Cappella del cardinale Tiberio Cerasi in Santa Maria del Popolo, una delle quali è identificata nel contratto del 1600 come "il mistero della conversione di san Paolo", pure questa una scena di vocazione, che Caravaggio rappresenta come un evento interiore e misterioso, avvolto di luce e silenzio "visionario" precisamente nella cecità di cui l'apostolo viene temporaneamente colpito (cfr. Atti, 9, 1-9). A differenza di altri, che avevano rappresentato l'evento con soldati e servi spaventati, con cavalli imbizzarriti, con apparizioni divine, Caravaggio riduce gli elementi narrativi a due uomini, un cavallo, e la luce che fa da protagonista.
La lettura che Caravaggio dà all'evento è fedele al racconto neotestamentario che descrive una presa di coscienza lacerante, una fulminazione morale e spirituale che mette in crisi tutto il senso di una vita. Saulo (successivamente Paolo), l'accanito nemico della primitiva Chiesa, era in viaggio verso Damasco con l'autorizzazione dell'alto sacerdote di fermare e imprigionare i discepoli di Cristo, quando, "all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?". Rispose: "Chi sei, o Signore?". E la voce: "Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare"" (Atti, 9, 3-9).
"Ti sarà detto ciò che devi fare". Caravaggio fa vedere qui la luce accecante, che diventa in quell'istante l'intero universo di Saulo; fa quasi sentire il silenzio, nell'immobilità delle figure, e fa sentire anche il disorientamento di quest'uomo che capisce d'aver sbagliato tutto. Saulo si trova letteralmente "a terra", le sue certezze azzerate, brancolante nel buio di una luce troppo grande, travolgente. Ma accetta che gli sarà detto ciò che deve fare. Colui che Saulo contestava, respingeva, considerava morto, aveva ragione e, vivo, ora chiama Saulo per nome, comandando la sua obbedienza!
L'ordinarietà del grande cavallo e la calma imperturbabile del servo sottolineano la totalità del mistero: nel mondo esteriore nulla è cambiato, ma nel cuore del santo tutto cambia. Cambierà anche il nome, e Paolo, riaprendo gli occhi, non vedrà più le cose come prima. Ormai potrà dire: "Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Galati, 2, 20). È questo forse il senso delle braccia innalzate. Nel buio luminoso, Paolo già incomincia a vivere di Cristo crocifisso.
(©L'Osservatore Romano - 5 marzo 2010)
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