giovedì 4 marzo 2010
“E se gli Ortodossi stessero provando a fare i Cattolici?» (Paolo D'Andrea)
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Riceviamo e con grande piacere pubblichiamo:
“E se gli ortodossi stessero provando a fare i cattolici?»
Paolo D'Andrea
«Omnis potestas a Deo», scriveva san Paolo.
In una prospettiva di fede, i cristiani hanno sempre iconosciuto che perfino il potere di chi li perseguita è in qualche modo “permesso” dai disegni misteriosi dell’Onnipotente. Per non parlare di quello che avveniva nei cosiddetti secoli cristiani, quando i sovrani e gl’imperatori d’Occidente piegavano la testa per farsi incoronare dal Papa, vescovo di Roma, successore di Pietro.
Qualcosa del genere è successo giovedì scorso, nella Laura delle Grotte di Kiev. È lì, nel luogo simbolo del cristianesimo dei popoli dell’antica Rus’ che Viktor Yanukovich ha voluto ricevere la la benedizione di sua Santità Kirill, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, come atto solenne d’inizio del suo nuovo mandato di presidente dell’Ucraina.
«Che il Signore ti benedica, nella tua presa in carico del potere», ha detto il Patriarca giunto apposta da Mosca, prima di leggere in lingua ucraina la «preghiera per la Nazione» e di regalare un’icona di Cristo Salvatore al nuovo presidente, che subito dopo si è recato al parlamento per giurare fedeltà al suo popolo secondo tradizione: ossia ponendo la mano sul Vangelo di Peresopnitskoe, la preziosa copia del Nuovo Testamento risalente al XVI secolo.
Sarebbe miope e fuorviante ridurre al rango di coreografia folkloristica i gesti a alto tasso di simbologia religiosa che hanno segnato l’inaugurazione della nuova presidenza ucraina.
I botta e risposta polemici che l’hanno accompagnata bastano da soli a far balenare le implicazioni geopolitiche e finanche ecclesiali dell’incontro tra Yanukovich e il Patriarca venuto apposta da Mosca. Prima che l’incontro avvenisse, i portavoce del blocco parlamentare Ucraina Nostra-Autodifesa nazionale (usciti sconfitti dalle elezioni presidenziali) avevano intimato al nuovo presidente di rifiutare la benedizione patriarcale, che avrebbe trasformato il suo insediamento nella consacrazione del reggente di uno Stato satellite ad opera del rappresentante religioso della Potenza dominante. A sentir loro, Yanukovich doveva scegliere se essere «presidente di una piccola Russia o dell’Ucraina unita e indipendente». Le repliche venute dagli ambienti patriarcali sono state spiazzanti e allusive di scenari inediti. «Noi» ha scandito a chiare lettere Vladimir Legoida, portavoce del Patriarcato «abbiamo già detto tante volte che la Chiesa ortodossa russa non è la Chiesa della Federazione russa, così oggi ho letto con disappunto una nota secondo cui il Patriarca Kirill avrebbe rappresentato la Russia alle celebrazioni in Ucraina».
Nella sua disamina, il laico Legoida ha voluto intenzionalmente ribadire che il gregge del Patriarcato di Mosca «si trova allo stesso modo in Ucraina, in Bielorussia e in Moldavia», e in questo senso «il colore del passaporto del Patriarca non gioca alcun ruolo».
Mentre gli argomenti anti-russi dei nazionalisti ucraini gli sono apparsi «del tutto politicizzati» e segnati da una totale mancanza di comprensione della natura della Chiesa e del ruolo del Patriarca, perché «la Chiesa non è uno Stato e non è un territorio».
La consacrazione patriarcale di Yanukovich si presta a varie letture. La gran parte di esse interpretano la vicenda secondo la cifra interpretativa già abbondantemente collaudata del connubio tra il patriarcato kirilliano e il neo-espansionismo geo-politico della Russia di Putin e Medvedev. Secondo l’analista politico Viktor Nebozhenko, dell’agenzia «Barometro ucraino», il Patriarca sarebbe addirittura il garante ultimo della tenuta del nuovo protagonismo russo rispetto a possibili lotte intestine della leadership politica.
Secondo il politologo «il duumvirato (Putin e Medvedev, ndr) in se stesso è instabile, e in un modo o nell’altro si arriverebbe a uno scontro di potere. Mentre l’antidoto a tale scontro è la configurazione di un triumvirato nel quale la Chiesa ortodossa si faccia carico delle grandi problematiche etiche morali e sociali».
Anche il teologo statunitense George Weigel continua a leggere il rapporto tra Patriarcato russo e Cremlino secondo i cliché venati di allarmismo già predisposti da lui e dai suoi colleghi teocon negli anni Novanta, in era tardo-wojtyliana. «C’è ragione di credere» ha scritto di recente Weigel sul Denver Catholic Register «che il Patriarcato di Mosca sarà un partner volenteroso e entusiasta dello sforzo dello Stato russo di ricostituire una Grande Russia».
Tali interpretazioni, plausibili e certo non prive di fondamento, risultano comunque datate, limitanti e caricaturali, se non si ricollocano dentro gli scenari più vasti a cui guarda la nuova stagione dell’Ortodossia russa nell’era del Patriarca Kirill. A tale proposito, le stesse formule usate dal portavoce patriarcale non sono certo scelte a caso. Testimoniano la calibrata volontà di emanciparsi da una prospettiva grettamente grande-russa, per muovere verso un recupero della vocazione universale che ha germinalmente segnato la fisionomia della cristianità ortodossa fin dai tempi della Rus’ di Kiev. Un respiro che inevitabilmente nel corso della storia ha trovato spazio di espansione proiettandosi sullo schermo della compagine imperiale zarista, ma che non ha mai perso i suoi tratti escatologici, quelli che rintracciano per il cristianesimo russo un ruolo specifico nella storia della salvezza promessa a tutti gli uomini.
Oggi, senza rinnegare i rapporti organici con la Russia post-sovietica, il Patriarca Kirill – a cui tutti, anche i detrattori, riconoscono una non comune ampiezza di visione strategica – guida la sua Chiesa fuori dalla tentazione etnico-nazionalista da sempre latente nell’ecclesiologia orientale. Nel mondo globalizzato, appare più facile riconoscere che la promessa cristiana, nella sua semplicità, ha per orizzonte il mondo. Nella stessa prospettiva universale si muove il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli.
Il Patriarca ecumenico ha sempre rivendicato all’interno del mondo ortodosso la propria prerogativa universale, presentandosi come il garante «del coordinamento e dell’espressione dell’unanimità delle Chiese ortodosse». Oggi, la riaffermazione della vocazione universale del Patriarcato ecumenico coincide con la sua possibilità di sopravvivenza: la legge di Ankara impone che il Patriarca abbia la cittadinanza turca, e questo sta lentamente erodendo il collegio dei possibili candidati. Per questo, come ha spiegato l’analista Nat da Polis nelle sue documentate cronache per l’agenzia Asianews, è stata provvidenziale la recente istituzione delle Conferenze episcopali della diaspora ortodossa, che avranno il compito di guidare il gregge ortodosso mantenendo un legame con il Patriarcato ecumenico e relativizzando l’esasperata sottolineatura del legame etnico dei fedeli con le rispettive comunità di provenienza. In questo modo, prima o poi, potrà avvenire che un vescovo di etnia russa, o romena, o serba, o araba venga scelto come Patriarca ecumenico, previa richiesta della cittadinanza turca.
La riscoperta della vocazione universale che si registra tra le Chiese ortodosse incrocia fatalmente i loro rapporti con la Chiesa cattolica. Non è un caso che il dialogo teologico cattolico-ortodosso, pur col suo andamento stop-and-go, continui di anno in anno a procedere sul tema decisivo del primato e sul ruolo del vescovo di Roma.
Il criterio della necessitas Ecclesiae, declinato nell’attuale contesto globalizzato, rende più facile riconoscere che l’esistenza di un primus tra i successori degli apostoli non è un mero postulato dell’organizzazione ecclesiastica, ma una realtà voluta da Cristo stesso per servire la comunione e la fede di tutti.
Il guaio è che mentre nel campo ortodosso torna a farsi sentire forte l’urgenza di un ministero universale di carità al servizio dell’unica Chiesa di Cristo, nei Palazzi vaticani, intorno al Papa teologo, non è che abbondino collaboratori attenti a approfittare in tutta umiltà e senza rumore di tale congiuntura favorevole.
Più che leggere i segni dei tempi, i più si appassionano piuttosto a scorrere gli articoli con le liste messe in giro dai vaticanisti nel festival no-stop del toto-nomine.
Assomigliano sempre più agli attempati soci di qualche bocciofila, di quelli pronti a accalorarsi solo quando viene il giorno di spartirsi le cariche sociali.
© Copyright Il Secolo d'Italia, 4 marzo 2010
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