venerdì 11 giugno 2010

Chi pensava all'anno sacerdotale appena concluso come all'ennesima invenzione celebrativa deve ricredersi di fronte ai due interventi del Papa (Vian)


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Chi pensava all'anno sacerdotale appena concluso come all'ennesima invenzione celebrativa, di poca sostanza se non addirittura inutile, deve ricredersi di fronte ai due interventi di Benedetto XVI che nel chiuderlo ne hanno mostrato il senso profondo.
Testi davvero importanti, di un Papa che è teologo e pastore come pochi suoi predecessori hanno saputo essere, al punto da richiamare alla memoria grandi vescovi dell'antichità cristiana, intellettuale e uomo di fede, che da oltre un sessantennio segue la teologia e sa parlare il linguaggio del nostro tempo.
Di fronte a un numero senza precedenti di preti che hanno potuto concelebrare con il successore di Pietro, il vescovo di Roma ha parlato del sacerdozio cattolico. Che non è una professione come le altre, non una casta chiusa né una realtà clericale, ma un sacramento. Segno cioè di una realtà infinitamente più grande, il sacerdozio è per questo motivo aperto al mondo. Lontano da ogni clericalismo perché ha gli occhi fissi sul cuore di Gesù, squarciato dal colpo di lancia del soldato e da cui scaturiscono acqua e sangue, simboli del battesimo e dell'eucaristia che spalancano le realtà di questo mondo a Dio.
L'anno dedicato al sacerdozio, occasione di riflettere e di farlo di nuovo brillare davanti agli uomini, non è piaciuto al "nemico" - c'era d'aspettarselo, ha sottolineato il Papa - ed ecco allora emergere gli scandali dei peccati dei sacerdoti, soprattutto gli orribili abusi dei piccoli. Per questi delitti con umiltà Benedetto XVI ha di nuovo chiesto perdono a Dio e alle vittime, senza recriminazioni o amarezze, ma sottolineando il compito di purificazione ormai avviato e che sarà lungo. Nella consapevolezza che questi scandali hanno oscurato il volto autentico della Chiesa, una realtà di cui lo stesso mondo secolarizzato ha nostalgia, come in parte indica lo stesso scandalo di fronte a questi veri e propri crimini.
Anche le donne e gli uomini di oggi sentono, magari oscuramente, il bisogno di chi può davvero cambiare la situazione della nostra vita pronunciando in nome di Cristo parole che assolvono dai peccati e aprono a Dio. Questo è il senso del sacramento: della penitenza, dell'eucaristia, dello stesso sacerdozio, che sono segni visibili in cui si nasconde l'audacia di un Dio che si affida a mani umane. E chi guarda al cuore di Gesù capisce che questo Dio non è un Dio lontano, ma è come un pastore che può insegnare - se soltanto si è disposti ad ascoltarlo - a essere persone, per non sprecare la vita nella mancanza di senso.
Guardando con lucidità ma senza pessimismi allo smarrimento contemporaneo e all'inesorabile destino di ogni creatura - la "valle oscura della morte dove nessuno ci accompagnerà" - Benedetto XVI ha ancora una volta levato lo sguardo a Cristo: ripetendo l'annuncio gioioso della Chiesa che il Signore è risalito dagli inferi e lì ha sottomesso l'ultimo nemico, e che egli, il vincitore della morte, è vicino a ognuno nelle "valli tenebrose" della vita, anche quando ogni luce sembra spegnersi.
Davanti a comportamenti indegni del sacramento sacerdotale - come davanti all'eresia e al disfacimento della fede - "la Chiesa deve usare il bastone del pastore", ha detto con forza il Papa. Aggiungendo che questo può essere "un servizio di amore" e che il bastone è anche "vincastro", sostegno di fronte alle difficoltà del cammino. E che soprattutto addita agli uomini il cuore di Cristo, unica sorgente di acqua viva che può dissetare il mondo.

g. m. v.

(©L'Osservatore Romano - 12 giugno 2010)

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