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Presentato il messaggio finale del Sinodo sul Medio oriente: appello ad una fede ferma e alla collaborazione
Fermezza nella fede, collaborazione nell’unità e comunione nella testimonianza: sono i tre appelli contenuti nel Messaggio finale del Sinodo per il Medio Oriente, presentato e votato oggi pomeriggio. Il documento, scritto in italiano, inglese, francese ed arabo, è stato letto in Aula da mons. Cyrille Bustros, e da mons. William Shomali, rispettivamente presidente e vicepresidente della Commissione sinodale per il Messaggio. Il servizio di Isabella Piro:
Una svolta storica: così il Messaggio finale del Sinodo definisce il contesto contemporaneo, in cui tutti sono chiamati a portare avanti il messaggio di Cristo con coraggio. In particolare, si ringraziano i fedeli perché perseverino nelle difficoltà, i sacerdoti perché diano il buon esempio, i laici perché abbiano il coraggio di dire la verità con obiettività. Con tono appassionato, il Sinodo parla alla famiglia, cellula viva della società, alle donne per le quali si auspica più responsabilità nella vita pubblica, ai giovani, perché superino materialismo e consumismo. Il messaggio dice grazie anche ai giornalisti, alle scuole, ai movimenti ecclesiali e sociali per il loro operato portato avanti senza discriminazioni. Poi, il documento chiede gli emigrati di mantenere legami materiali e spirituali con la loro patria; per gli immigrati, definiti un arricchimento, si ribadisce la tutela dei diritti. Quindi, la pagina del dialogo, sia ecumenico che interreligioso: il primo va perseguito, dice il Sinodo, lavorando insieme per il bene dei cristiani; il secondo va articolato con gli ebrei e con i musulmani evitando squilibri e promuovendo la giustizia e la pace. Riguardo all’aspetto politico, il Sinodo chiama in causa i governi locali e la comunità internazionale, perché tutelino il diritto di cittadinanza, la libertà di coscienza e di culto. Per il conflitto israelo-palestinese, la soluzione dei due Stati diventi una realtà e non rimanga un sogno, afferma il Messaggio, e l’Iraq veda la fine di una guerra assassina. In questo contesto, violenza, terrorismo, razzismo, vengono condannati, insieme ad antisemitismo, anticristianesimo ed islamofobia. Infine, il Sinodo affida alla Vergine Maria il futuro degli uomini.
Nel corso delle due settimane di lavori i vescovi hanno sottolineato, tra le altre priorità per la Chiesa in Medio Oriente, la necessità di sostenere la pastorale delle vocazioni e quella di incoraggiare la formazione dei seminaristi per le missioni. A tale proposito il vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, mons. Giorgio Bertin, parlando di comunione ecclesiale ha evidenziato l’importanza di una vera e propria “condivisione di beni” all’interno della Chiesa, proponendo la creazione di una “banca di sacerdoti senza frontiera”, pronti ad essere inviati in situazioni di emergenza. Ascoltiamo lo stesso mons. Bertin al microfono di Paolo Ondarza:
R. - Ci sono delle situazioni improvvise e drammatiche a cui bisogna rispondere immediatamente e allora ci deve essere una certa disponibilità. Questo è l’aspetto che potremmo definire un po’ debole, perché si corre il rischio di avere sacerdoti che non hanno una grande preparazione.
D. - Che cosa manca oggi - dal suo punto di vista - nella formazione dei sacerdoti?
R. - Io ho raccontato la storia dei primi missionari in Somalia, che sono andati senza preparazione, e ho anche detto che la formazione si fa, ma che è importante spingere affinché ci sia spirito di generosità e di sacrificio. Queste sono per me due parole molto importanti.
D. - Il suo auspicio per questo Sinodo?
R. - Io direi che l’aspetto comunione deve diventare veramente più effettivo. Comunione e quindi anche comunione di beni: io ho fatto la proposta perché il Medio Oriente e così anche il resto della Chiesa, pensi a formare una banca di sacerdoti per diocesi, per situazioni particolarmente difficili. E’ un invito che ho fatto anche al Medio Oriente di contribuire e, quindi, di aprirsi di più allo spirito missionario: condividiamo di più, cerchiamo di vivere veramente meglio questa comunione che esiste fra di noi, questa fratellanza, ma viviamo con maggior concretezza.
Visitare la Terra Santa per incoraggiare i cristiani a restare nei luoghi della predicazione del Vangelo, funestati da anni di violenze. Per contrastare la fuga di intere famiglie cristiane i Padri Sinodali ribadiscono l’importanza dei pellegrinaggi. La presenza dei pellegrini – ha detto il patriarca di Gerusalemme dei Latini Fouad Twal - è vitale per la Chiesa in Medio Oriente. Paolo Ondarza lo ha intervistato:
R. - Francamente la loro presenza significa che la mia e la vostra comunità cristiana che sta in Terra Santa non è abbandonata, non è dimenticata. La vostra presenza per noi significa molto.
D. - Lei ha detto che va evitato che la Terra Santa diventi un “museo a cielo aperto”…
R. - Non lo diventerà mai, mai. Anche se lo ho detto, non lo diventerà mai. C’è Qualcuno che ha detto: “Non abbiate paura, sono con voi”. Dobbiamo ritornare a prendere seriamente queste parole del Signore: se Lui è con noi, non dobbiamo avere paura e non dobbiamo avere nessun complesso. Quindi andiamo avanti, preghiamo, lavoriamo, accogliamo, amiamo e tutto senza paura, perché c’è Lui. La nostra fiducia non viene dalle circostanze geopolitiche che sono drammatiche, che sono purtroppo ancora peggio di prima. Noi siamo là: è una Chiesa del Calvario, ma - allo stesso tempo - è anche una Chiesa della speranza, della gioia di vivere, di lavorare, di accogliere. E’ una Chiesa della Resurrezione!
D. - E’ con questo stato d’animo che vivono i cristiani in Terra Santa oggi?
R. - Magari tutti avessero questo sentimento! Questo è il mio discorso, il mio sentimento. Alcuni sono disperati e optano per emigrare, per lasciare questi posti. Questa è la nostra posizione e deve essere la nostra posizione quella di dare fiducia, di dare speranza, di dare gioia di vivere.
D. - Il conflitto israelo-palestinese è tra le principali cause delle sofferenze dei cristiani in Terra Santa?
R. - E' solamente il conflitto, nient’altro. E’ un conflitto, che non finisce più. Pare che la gente non abbia alcuna voglia di finirla con questo conflitto; pare che ci sia gente che ha più paura della pace che non della guerra e alimentano la paura. Da 60 anni non abbiamo più goduto di una vita normale. Non cerchiamo niente di speciale: solo svegliarci la mattina e andare al lavoro, come andare all’ospedale, andare all’Università o andare al Santo Sepolcro: non possono neanche arrivare fin là! Non è una vita normale!
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