venerdì 8 gennaio 2010
Intervista al card. Camillo Ruini: La nostra sfida all’uomo di oggi (Davide Perillo)
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Tracce N.1, Gennaio 2010
CHIESA
La nostra sfida all’uomo di oggi
Davide Perillo
La speranza, «il fondamentale fattore educativo». L’illusione della neutralità, che «equivale a “sterilizzare” la nostra proposta». E la cultura attuale, che ostacola «l’apertura originaria dell’uomo»... In quest’intervista, il cardinale Camillo Ruini affronta la vera urgenza della nostra epoca. Invitando tutti a «riprendere il filo dell’educazione»
Contento, Eminenza?
«Direi proprio di sì. Abbiamo superato le aspettative, sia come contenuti che come partecipazione. Non mi riferisco solo alle presenze, alle 2500 persone intervenute, ma al loro coinvolgimento. E al fatto che moltissimi fossero giovani: fa ben sperare...». Il convegno romano su “Dio oggi” si è appena chiuso (vedi box a pagina 78), ma a rendere lieto il cardinale Camillo Ruini, già a lungo presidente della Cei e oggi a capo del Progetto culturale dei vescovi italiani, non è solo il bilancio di quei tre giorni ricchi di contributi («chi mi ha colpito di più? Tanti: Spaemann, Scola, Nowak. E poi Ravasi, Brague, Lenoci... Ma non mi faccia fare elenchi: sarebbe impossibile citarli tutti») che proprio il cardinale ha voluto come approfondimento sull’unica questione che «può cambiare tutto». C’è un altro fronte aperto: quello de La sfida educativa, il Rapporto-proposta del Progetto pubblicato poche settimane fa (v. Tracce, n. 9/2009). E anche lì il lavoro procede bene. «L’accoglienza è buona. Abbiamo venduto 16mila copie, ma soprattutto vedo che ovunque hanno cercato di trovarsi e parlarne. Ieri sera, per dire, ero ad Ancona: c’era l’aula magna gremita. Segno che anche il tema educativo è sentito. Almeno quanto quello di Dio».
Nel suo intervento al convegno lei ha detto, tra l’altro, che «la nostra intelligenza non può non interrogarsi sull’origine dell’essere della realtà che sperimentiamo». Eppure oggi è proprio questo percorso a sembrare difficile, quasi bloccato. Che cosa può permettere di riscoprirne la pienezza? E l’educazione, in fondo, non è anzitutto riprendere proprio questo itinerario?
Partiamo da un dato fondamentale. Già Aristotele, all’inizio della Metafisica, scrive che «ogni uomo, per sua natura, desidera conoscere» e che questo desiderio è la radice dell’apertura della nostra intelligenza a tutta la realtà. È un fatto strutturale. Quello che serve, quindi, è un lavoro culturale in profondità che aiuti a rimuovere certi ostacoli che appartengono alla cultura attuale. Penso soprattutto al relativismo, ma anche a tanti altri atteggiamenti che rendono difficile che questa apertura originaria sprigioni le sue potenzialità. Riprendere il filo dell’educazione può contribuire a questo. A far sì che le persone concrete possano inserirsi in un trend culturale in cui l’apertura viene facilitata e non ostacolata.
Senza Dio è possibile educare?
Io direi di sì, ma senza di Lui non si riesce a dare un fondamento ultimo all’educazione. È come per l’etica. Senza Dio, è possibile: non è che chi non crede non abbia un’esperienza morale o non possa seguire un impegno morale. Solo che quando vuole giustificare fino in fondo quest’impegno, si trova in difficoltà. E lo stesso accade per il tentativo di dare un fondamento ultimo ai contenuti sui quali l’educazione poggia: dalla libertà all’amore, alla ricerca del vero, e via dicendo. Penso che la questione si ponga in questi termini.
Ma l’educazione non è di per sé un’apertura, un tentativo di spalancamento verso quel fondamento ultimo?
Certamente, nell’educazione c’è una tendenza del genere, ma non è necessario sempre esplicitarla. Molte grandi culture hanno educato avendo un’idea confusa del “fondamento”. In Grecia ci sono stati grandi educatori, ma se guardiamo a tutto il loro Pantheon non è che avessero le idee molto chiare...
Però si ponevano il problema di Dio, inteso come significato ultimo...
In questo senso sì, non c’è dubbio: senza porsi il problema del significato della vita, non è possibile educare.
E perché l’educazione, oggi, è diventata un problema, addirittura una «sfida»?
Questa è una domanda chiave. Si potrebbe declinare la risposta in vari modi che alla fine, però, si dimostrano convergenti. Il Santo Padre ha parlato del relativismo che, appunto, toglie consistenza a ogni posizione e pone tutto sullo stesso piano, impedendo un vero lavoro formativo. Umberto Galimberti ha parlato del nichilismo, e in fondo si torna allo stesso problema: la mancanza assoluta di un terreno solido sul quale costruire. Io ho parlato più volte di “naturalismo”, nel senso di riduzione dell’uomo alla natura. Se l’uomo è solo un prodotto della natura, un suo frammento, seppure nobilissimo, allora non si vede come possa essere libero e responsabile, oltre che davvero intelligente. E non si vede nemmeno come si possa formare la sua libertà. Questo, credo, è il motivo ultimo della crisi dell’educazione.
Se dovessimo trovare un denominatore comune, potremmo dire che è un’antropologia debole, una concezione dell’uomo ridotta in partenza...
Sì. E dietro la debolezza dell’antropologia c’è l’eclissi di Dio, dell’Assoluto oggettivo.
Nel Rapporto c’è un punto in cui si parla di «scomposizione dell’uomo» e di «scissione tra affezione e razionalità». Che peso ha questa frattura nella crisi educativa?
Un grosso peso. Io formulerei la questione così: da una parte c’è una razionalità molto appiattita sull’esperienza empirica, ma dall’altra c’è un forte bisogno di significato. Perché l’esaltazione del soggetto continua a essere presente nella nostra epoca, seppure in modo contraddittorio rispetto alla sua riduzione alla natura. E allora questo soggetto, che da una parte ha un alto senso di sé e dall’altra non trova risposte razionali (dato che la scienza non si pone la questione del significato), finisce per sentirsi dissociato. Scomposto, appunto. Tutto ciò pesa soprattutto sul soggetto giovane, che è più esposto: sia perché è in crescita, sia perché vive immerso nella cultura di oggi e non ha respirato l’eredità di tempi diversi, nei quali il panorama socio-culturale era più consistente...
La conseguenza, però, è un paradosso: tanto più l’uomo ha questa concezione limitata di sé, tanto più ha un ego ipertrofico, vive un individualismo esasperato.
Ma questo non è casuale, è il retaggio della modernità; di quella centralità del soggetto che nessuno può abbandonare. Può essere negata in sede filosofica e scientifica, ma non può essere contrastata nel dibattito pubblico. Anzi, nel dibattito pubblico viene persino esaltata da chi vuole porsi all’avanguardia. E questo rafforza il paradosso di cui lei parlava.
Che nesso c’è tra “neutralità” e crisi educativa? Nel Rapporto se ne parla apertamente...
“Neutralità” significa, in fondo, “sterilizzazione” della proposta educativa, significa non assunzione di alcun criterio fondante. Non si sa a che cosa si viene educati. Che è cosa ben diversa dall’onestà intellettuale: quando uno ha una posizione chiara conserva l’obbligo di essere onesto intellettualmente nel riconoscere anche i meriti di posizioni diverse. Ma un conto è questa onestà intellettuale, doverosa in ogni educatore; e un conto è la neutralità, che è concretamente impossibile. Nella misura in cui si cerca di attuarla, l’educazione viene ridotta a istruzione. Manca il proprio dell’educazione.
E qual è il rapporto tra educazione e speranza? Perché è evidente che il deficit educativo è legato a doppio filo a una mancanza di certezze e fiducia stabili, capaci di durare e aprire prospettive...
La speranza vuol dire una fiducia che ha il suo fondamento in Dio, e che quindi sia, oltre che una fiducia grande, una fiducia fondata. Non basta una fiducia piccola e utilitaristica. E tutto questo è d’importanza decisiva per poter davvero educare. Ha ragione il Papa quando dice che la speranza è il fondamentale fattore educativo. Ma si può dare speranza soltanto quando si ha speranza.
Questo spiega molto dell’abdicazione dal processo educativo. Si rinuncia a educare perché non si sa “a che cosa” si educa.
Credo che questa sia una delle ragioni principali. Si è incerti su “a cosa” educare. Mancando questa consapevolezza interiore del fatto che si ha qualcosa di positivo da comunicare, e non soltanto di apparentemente positivo, il soggetto educatore viene paralizzato.
Nel Rapporto lei scrive che «siamo tutti in qualche modo attori del processo educativo»: l’educazione non è una questione da addetti ai lavori, è un problema che riguarda tutti, una dimensione propria di qualsiasi rapporto. Ma, al di là dei propri ruoli specifici, qual è il denominatore comune del compito educativo? C’è qualcosa di preciso che viene richiesto a tutti?
Il denominatore comune è sempre la formazione della persona. Della sua capacità, essendo amata, di amare a sua volta. Della sua curiosità, dell’apertura della sua intelligenza e capacità critica. Della sua libertà da congiungere con la sua responsabilità. E anche della sua capacità di soffrire. Questo non lo si dice mai, ma è importante far crescere una persona con la capacità di affrontare le difficoltà della vita.
Non crede che nell’abdicazione dal compito educativo ci sia anche il timore di ciò che don Giussani chiamava “rischio”, ovvero del confrontarsi con la libertà dell’altro? È come se si avesse paura di “investire” su quel fattore...
Certamente sì. Oggi spesso si vorrebbe eliminare il rischio: questa è una delle tendenze diffuse. Eliminare il rischio, anche nei comportamenti personali. Non ci si sposa per eliminare il rischio che il matrimonio vada male. Non si mette al mondo un figlio per eliminare il rischio non solo della gravidanza, ma che poi il figlio deluda. Non si intraprende una scelta economica perché non è sicura. Questa tendenza indebolisce le persone e la società. Il rischio fa parte della vita. Perché il futuro è aperto, non possiamo pensare che ce lo diano già costruito.
Quanto pesa in questa paura il fatto che l’esperienza cristiana si sia indebolita?
Secondo me pesa molto. È indebolita la fiducia in Dio come operante nella vita concreta. Habermas già tanti anni fa diceva che la perdita della fiducia in Dio e nella grazia di Dio era ormai esperienza comune del nostro tempo, e che questa perdita aveva «cambiato l’orizzonte perché era una perdita non surrogata». Non c’è ideologia che possa surrogare questo, anche se magari ha cercato di farlo.
Però non è soltanto una perdita di fiducia nella Provvidenza, nel Dio che guida la storia: forse è anche la mancanza di percezione che noi stessi siamo guardati così ora da un Dio che, in fondo, investe tutto su di noi e sulla nostra libertà. Non crede?
Sì, questo manca ancora di più. E manca ancora di più perché è venuto meno, nella cultura diffusa, un concetto base del cristianesimo: Dio che si rivela all’uomo e interagisce personalmente con lui è un’idea che è stata espunta dalla cultura. Sopravvive nella preghiera, ma questa contrasta con la visione del mondo attualmente diffusa.
Ma se è così, da dove nasce questa “paura”?
Torniamo alla mancanza di certezze di fondo. Io ho visto il superamento di ogni forma di paura in persone concrete. Giovanni Paolo II, sulla base della sua profondissima fede vissuta e concreta, non aveva paura. Il famoso «non abbiate paura» lo diceva agli altri, ma prima di tutto lo viveva lui.
Che cosa permette di riprendere consapevolezza dell’urgenza educativa?
Direi semplicemente: i fatti. La gravità delle conseguenze della mancanza di un’autentica proposta educativa fa sì che la gente sia costretta a interrogarsi e cerchi di uscire da questo vicolo cieco. Ormai tutti avvertono il bisogno sociale dell’educazione perché hanno paura di una società selvaggia, che è una paura quasi primordiale. Personalmente sono convinto che la società sia molto migliore di quella che abbaglia i media: ci sono tante esperienze positive, anche molto semplici. Tanta gente che continua a sacrificarsi, a darsi. La società sta in piedi per quello. Ma quando vengono invece evidenziati sistematicamente fatti abnormi, infrazioni gravissime alle norme minime della convivenza, la gente tira le conseguenze. E si spaventa.
Che valore ha, nella possibilità di ripartire, l’indicare e il valorizzare degli esempi anche piccoli?
L’esempio è la cosa più comprensibile e più coinvolgente. Nella pedagogia è sempre stato così. Riscoprire l’esempio è importante.
Tra gli ambiti dell’educazione affrontati nel Rapporto non c’è la politica: come mai?
Non è così. La politica, in realtà, ha un ruolo in tutti gli ambiti, perché ha una capacità di guida nella sussidiarietà. Non credo che la politica debba assumere la guida diretta di questi processi, ma può essere guida nella sussidiarietà: può favorire i vari soggetti che si esprimono in questo ambito. In questo senso, la politica è sempre presente in questo libro; ma in maniera più implicita, se vogliamo. Sullo sfondo.
Ma da dove si può ripartire per recuperare la tensione al “bene comune”? Che ruolo ha l’educazione in questo? E che compito tocca ai cattolici?
Noi abbiamo scelto di partire dalla consapevolezza delle difficoltà, ma anche da un lavoro sulla cultura. L’educazione è fondamentale per poter essere consapevoli delle proprie responsabilità. E i cattolici devono essere portatori di speranza. Se veramente sono credenti, portano speranza nel mondo. Non soltanto le istituzioni educative della Chiesa, come scuole o oratori, ma tutta la pastorale comune (le parrocchie, i gruppi, i movimenti, le comunità religiose) ha di per sé una grande valenza: forma le persone, dà loro dei contenuti, dei modelli, propone un orientamento di vita e quindi educa. Se è seria, entra in profondità. E poi c’è un altro aspetto: quello che ho chiamato “la diaconia delle coscienze”. È l’ambito che riguarda ogni persona, in particolare il cristiano laico che vive nel mondo, nella famiglia, nel mondo del lavoro, del giornalismo, dell’economia... Se cerca di vivere secondo coscienza, interpella anche chi è vicino a lui. Lo provoca a prendere sul serio la propria coscienza. Questo è molto importante per migliorare il clima generale della società, anche se è un fatto nascosto. È una forma di apostolato, una missione capillare di cui non c’è abbastanza consapevolezza. Bisogna rendere più consapevoli anche i sacerdoti del loro continuo ruolo educativo. Non ci vogliono chissà quali iniziative. Già una messa ben celebrata, un’omelia fatta bene...
Eminenza, lei ha definito La sfida educativa «un rapporto-proposta»: se dovesse racchiudere la proposta in una frase?
Mettere al centro la persona umana, che è l’obiettivo vero dell’educazione. Collaborare insieme per mettere al centro l’umanità dell’uomo. Per tutti.
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