lunedì 14 dicembre 2009

Mass media, "Quando la Chiesa finisce in caricatura": straordinaria riflessione di Chiara Giaccardi


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Media

Quando la Chiesa finisce in caricatura

Il talento di Benedetto XVI si esprime nella parola 'parlata' e sobria, impregnata di 'logos'.
Una modalità comunicativa particolarmente preziosa, ma anche difficile per la nostra epoca. Una delle sfide che la Chiesa deve saper cogliere oggi è proprio quella di rieducare a un ascolto liberante dalla comunicazione 'totalitaria' e riduttiva in cui la cultura contemporanea ci intrappola


Qual è oggi l’immagine della Chiesa nei mass media? Perché il suo messaggio è spesso storpiato o non compreso? Pubblichiamo un’analisi della sociologa dell’Università Cattolica Chiara Giaccardi.
Se la Chiesa non può rinunciare a prendere la parola sulle grandi questioni, al tempo stesso per evitare i trabocchetti della strumentalizzazione può a volte scegliere la via del silenzio


di Chiara Giaccardi

La Chiesa opera oggi in un contesto particolarmente difficile, in cui la cultura dominante promuove forme di 'nichilismo pratico' e in cui i media non sono neutri, ma contribuiscono a creare con-senso (nell’accezione letterale di 'sentire insieme') nei confronti di questa cultura e a promuovere adattamento (e in alcuni casi anche 'addestramento') anziché critica: un sentire basato sull’intensità e il pathos, più che sull’adesione al bene comune e sulla comunicazione.
L’annuncio della Chiesa è oggi decisamente controcorrente: in un mondo dove imperano il culto del corpo, l’ideologia di una libertà sciolta da ogni vincolo, la cultura dei diritti individuali sganciati dalle responsabilità, l’estetica della sensazione e il mito dell’istantaneità e del presente assoluto, il ruolo della Chiesa è da un lato più arduo che in passato, mentre dall’altro sono più concreti i rischi di travisamento e strumentalizzazione del suo messaggio, soprattutto quando esso passa attraverso i media tradizionali (in particolare stampa e televisione).
Il ruolo è più arduo perché il processo di secolarizzazione avviatosi con la modernità ha portato a un vero e proprio 'fondamentalismo laico', che nega ogni legittimità e persino il diritto all’esistenza di ogni discorso che non sia quello dell’immanenza e dell’equivalenza: ha diritto di parola solo chi si colloca dentro l’orizzonte dell’immanenza, e dentro questo orizzonte tutte le posizioni sono equivalenti.
La nostra è anche l’epoca del nichilismo, come Nietzsche aveva prefigurato, quando, nei frammenti postumi raccolti ne La volontà di potenza , definisce il nichilismo come «la musica del futuro per la quale tutte le orecchie sono già in ascolto» e afferma quasi profeticamente: «Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più e ha paura di riflettere».
Ci sono almeno due tipi di nichilismo: quello esplicito di chi non solo nega i valori, ma deride chiunque sostenga e tenti di credere in qualche cosa, come fa il 'fondamentalismo laico', che è l’esatto corrispettivo, l’altra faccia della medaglia rispetto al fondamentalismo religioso. E c’è anche un nichilismo più subdolo, di chi dice a parole di credere nei valori ma li smentisce con le proprie pratiche, nei fatti. Questo atteggiamento estremamente diffuso, che potremmo definire 'nichilismo di fatto', o 'nichilismo pratico' (e per il quale gli anglosassoni usano un’espressione forse ancora più pregnante, cheering nihilism , nichilismo sorridente), è ancora più pericoloso perché svuota dall’interno la credibilità dei valori e la loro capacità di mobilitare, attrarre, orientare, trasformandoli in tecniche, equivalenti a tante altre, per ottenere strumentalmente consenso e vantaggi personali.
Assistiamo poi, nella sedicente era della libertà, a una vera e propria 'dittatura dell’immediatezza', che non ammette altro fuori da se stessa, e a un autoritarismo del dato di fatto, che si impone come la legittimazione ultima di ogni verità. Da qui, una sovrapposizione surrettizia tra possibilità e realtà: tutto ciò che è possibile deve diventare reale; la realtà esaurisce nella sua immanenza l’ambito dei possibili; l’unica trascendenza, intesa come superamento 'orizzontale' di un limite, è quella della tecnica; una finta equazione si stabilisce tra 'vero' e 'fattibile'.
Gli antropologi sanno che il templum era quel cerchio magico che lo stregone tracciava e che delimitava il perimetro della sua influenza, il luogo separato dall’ordinarietà ('sacro', appunto), dentro il quale operare i propri riti magici. Il templum della cultura contemporanea è l’immanenza, e quello dell’individuo coincide spesso con i confini del proprio corpo, o al più con quelli della sua bolla relazionale stretta (o virtuale allargata, sempre disponibile alla sconnessione e all’uscita senza conseguenze).
Questo templum è totalizzante. Come scriveva Emanuel Lévinas in Totalità e infinito, tutta la cultura occidentale fagocita ogni aspetto del pensiero e dell’essere in questa totalità immanente e inglobante, con effetti violenti di cancellazione dell’alterità e di negazione dell’infinito. La cultura dell’immanenza è anche una cultura 'idolatrica' (come affermano, tra gli altri, Ricoeur e de Certeau), che esprime il nostro tentativo di ridurre tutto alle nostre idee e alle nostre parole, e la nostra pretesa di essere i 'proprietari del senso'.
E questo carattere della cultura contemporanea spiega, perché ne è alla base, alcune 'patologie' della contemporaneità, che autori come Ricoeur, de Certeau, Lévinas ci aiutano a identificare e interpretare. Patologie che sono tra loro collegate, ma che hanno due forme particolarmente evidenti, a dispetto dei luoghi comuni che descrivono il nostro tempo: la crisi del simbolico e la crisi dell’alterità.
È proprio qui che scatta la trappola della strumentalizzazione.
I media (almeno quelli mainstream ) cercano di attirare anche la Chiesa nel loro templum , dntro il regime totalizzante delle equivalenze, rendendola uno dei tanti soggetti che esprimono opinioni su tutto, politicizzandone gli interventi, cercando di intrappolarla nel gioco delle provocazioni e delle reazioni che, attraverso la polemica, alimenta l’audience e il nichilismo.
Nel nome della 'difesa della laicità', si cerca sistematicamente di neutralizzare la legittimità della Chiesa come soggetto capace di una parola autorevole e in grado di offrire anche ai laici opportunità e prospettive diverse di riflessione. È paradossale che nell’epoca del trionfo della 'differenza' ciò che si discosta dal coro dominante e 'ufficiale' fatichi a trovare un riconoscimento, e, anzi, sia sistematicamente misconosciuto.
Ci sono almeno due diversi atteggiamenti all’interno di questa comune cornice nichilista. C’è il 'nichilismo militante' dei laici 'fondamentalisti' che, con aggressività e spesso una buona dose di malafede, cerca di costruire un’immagine della Chiesa come 'Chiesa del no' (che nega i diritti individuali, la libertà di scelta e di autodeterminazione, le conquiste del progresso e così via), selezionando accuratamente, dentro un discorso e soprattutto una prassi molto più ampi e articolati, solo ed esclusivamente gli elementi che, strategicamente, possono confermare questa rappresentazione.
Rappresentazione che, per i sempre più numerosi non credenti, ma anche per chi è anche solo non praticante, finisce per costituire l’unica risorsa simbolica a disposizione per potersi fare un’idea di questa realtà.
Rientra in questa forma di nichilismo militante anche la sistematica sottolineatura di reali o presunte incongruenze, contraddizioni, divisioni e lacerazioni interne (soprattutto tra una Chiesa istituzionale 'punitiva' e una Chiesa 'buona', che vive coi poveri e non si pronuncia pubblicamente, una 'Chiesa del silenzio' che sa 'stare al suo posto').
C’è poi 'nichilismo pratico' o 'nichilismo di fatto' di chi a parole non nega, o magari afferma i valori cristiani e la vicinanza alla Chiesa, ma, cinicamente, li nega nella prassi, corrodendo dall’interno la fiducia in un uso non strumentale delle parole e dei valori e contribuendo in modo pesante a scoraggiare la speranza nel futuro e l’impegno per il bene comune.
È di entrambe le facce del nichilismo che la Chiesa, specie quando comunica sui media ma non solo, deve tenere conto, se non vuole restare intrappolata nei trabocchetti delle equivalenze e della polemica, ma neppure nel cinismo della strumentalizzazione e delle logiche dell’'usare' o 'essere usati', che sono quelle della cultura dell’immanenza.
Quello sui valori è un discorso molto delicato oggi, e proprio per questo molto importante. La Chiesa si trova di fronte uno scenario in cui i valori rischiano di essere ridotti a bandiere, a feticci, e strumentalizzati, nel regime delle equivalenze, per altri fini. Attraverso il discorso sui valori, i media dipingono poi la Chiesa come una roccaforte difensiva, che nega la libertà individuale e si attesta su posizioni conservatrici: una rappresentazione volutamente caricaturale, che il cardinal Bagnasco ha definito come quella di una Chiesa «animata solo dalla volontà di alzare muri e scavare fossati», una «Chiesa dei no, nemica dell’uomo e indifferente ai suoi bisogni». Nello stesso tempo, la Chiesa non può rinunciare a prendere la parola, in un momento in cui le persone disorientate cercano una guida e in cui non si può abbandonare il discorso sull’umano nelle mani dei diversi nichilismi.
Da un lato pare oggi più che mai necessario, per la Chiesa, prestare grande attenzione ai tempi e ai modi del proprio prendere la parola sulla scena pubblica, cercando di sottrarsi al gioco delle equivalenze e ai trabocchetti della strumentalizzazione: d’altra parte Gesù ha mandato i suoi discepoli come «pecore in mezzo ai lupi», raccomandando loro la semplicità della colomba ma anche la scaltrezza del serpente (cfr Mt 10,16).
Questo può anche voler dire scegliere, in qualche momento, il silenzio rispetto ai 'ritmi' dettati dai tempi della polemica, governando in maniera consapevole e accorta i propri turni di parola. Può essere molto più incisivo un silenzio deliberato che una parola sollecitata da altri, con intento polemico. Decidere se, quando e come intervenire è altrettanto importante, oggi più che mai, che decidere cosa dire. In questo tempo di sovraffollamento, in cui per stagliarsi dal rumore di fondo occorre alzare la voce e i toni, la Chiesa può comunicare più efficacemente quanto più saprà essere insieme profetica e apofatica, contemperando il coraggio dell’annuncio e quello del silenzio.
Dall’altro, la Chiesa non è uno dei tanti soggetti sulla scena pubblica: anche per il non credente la sua storia, i suoi martiri, la sua vita quotidiana e silenziosa fatta di apertura all’infinito, preghiera, attenzione ai deboli di tutta la terra la pone, che lo si voglia riconoscere o no, su un piano che è comunque differente, e che va mantenuto tale: la Chiesa può dire, con Gesù: «Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre» (Gv 10,37-38).
E la facile obiezione dell’incongruenza, delle contraddizioni, anche degli errori commessi (con la grandezza dell’umiltà di chi sa chiedere perdono, come fece Giovanni Paolo II) può essere altrettanto facilmente confutata: incarnare e testimoniare non significa essere immuni dall’errore, che è connaturato alla nostra condizione umana limitata. Pietro ha tradito Gesù, molti santi sono stati prima grandi peccatori, compreso san Francesco.
La buona notizia è che noi siamo 'giustificati', ovvero resi giusti (resi, perché non lo siamo da soli) dalla nostra fede, dal nostro fidarci di Dio Padre che ci ama, e non ci identifica con il nostro errore. Gesù si è fatto inchiodare alla croce perché noi non fossimo inchiodati ai nostri peccati. E la verità della nostra fede si afferma nonostante noi peccatori, e attraverso di noi nonostante tutto: il mio essere fragile non nega la bellezza della fede in cui credo, rivela solo il mio limite; un limite al quale, a differenza di quanto accade in altri ambiti 'laici', posso non rimanere incatenato.
È comunque paradossale, si può aggiungere a margine, che in una cultura della 'compatibilità assoluta' (per esempio di comportamenti patologici nel privato e di dichiarazioni pubbliche completamente diverse), dove la coerenza è un ostacolo alla libertà e la contraddizione non è più nemmeno percepita come tale, si continui a utilizzare questo regime discorsivo, in tutti gli altri ambiti abbandonato da tempo, solo per attaccare la Chiesa.
Fortunatamente, la Chiesa ha una storia molto più lunga e molto più ricca di quella della cultura occidentale della totalità come immanenza e ha, nel Vangelo, un modello di comunicazione 'paradossale' (che smaschera e supera i luoghi comuni, parà- doxa ), che non deve cessare di farle da modello. Una comunicazione che, a differenza di quanto fa quella mediatica contemporanea, non separa mai parola e vita, e da questa intrinseca unità trae la propria legittimità e autorevolezza.
Se poi guardiamo la storia più recente, la Chiesa ha saputo cogliere positivamente molte importanti sfide comunicative.
In epoca di globalizzazione, è stata la prima rete planetaria a sfruttare in chiave di promozione umana il proprio potenziale di interconnessione. Il pontificato di Giovanni Paolo II, in questo senso, è stato un esempio di uso innovativo e consapevole dei media (intesi, con McLuhan, sia come mezzi di comunicazione che come mezzi di trasporto), anticipando e incarnando nel modo più autentico alcune potenzialità della globalizzazione (la mobilità, la permeabilità dei confini, la simultaneità despazializzata dell’esperienza – anche quella religiosa, la componente interculturale della comunicazione, e così via). Ma Giovanni Paolo II ha saputo anche rendere comunicativo il silenzio e dignitosa la sofferenza, come condizione che ci accomuna, che non va rimossa, che ci rende fratelli in Cristo.
Il talento comunicativo di Benedetto XVI è diverso; si esprime nella parola 'parlata' e sobria, attraverso quel léghein che dicendo unisce; una parola impregnata di logos e non una parola 'magica' come quella cui i media ci vanno abituando, che promette trasformazioni meravigliose e istantanee (del nostro corpo, della durata della nostra vita, dei progressi della tecnica...), facendo leva su una sensibilità sovraeccitata o a una emotività esasperata.
Una modalità comunicativa come quella del Papa è particolarmente preziosa, ma anche particolarmente difficile per la nostra epoca. Una delle sfide che la Chiesa deve saper cogliere oggi è proprio quella di rieducare a una parola-logos, di accompagnare a un ascolto che può essere impegnativo e incrinare qualche fragile certezza, ma è liberante dalla comunicazione 'totalitaria' e riduttiva in cui la cultura contemporanea: una sorta di grande 'paese dei balocchi' (che qualcuno guarda soltanto da lontano…) ci intrappola.
La comunicazione attraverso la parola-logos va nella direzione contraria a quella cui ci andiamo abituando, a quella serie di slogan e parole 'magiche' che non risolvono i problemi, anzi non ci aiutano nemmeno a capirli, ma ci tranquillizzano, 'chiudono' le questioni senza sollecitare una comprensione, offrendo facili e consolatorie quanto ineffettive risposte, che valgono lo spazio di un giorno o poco più e sono subito dimenticate e rimpiazzate con altre più 'efficaci'.
Non si può negare, però, che quella comunicativa è una sfida molto impegnativa, anche e soprattutto per la Chiesa: in un tempo come questo, come trasformare la pluralità delle voci al proprio interno in una polifonia anziché dare l’impressione di una cacofonia che presta il fianco a facili strumentalizzazioni? Come educare fedeli e non fedeli al rispetto di quell’alterità senza la quale non può esistere né il pensiero né l’umanità, e insieme all’amore per quell’unità senza la quale ciò che potrebbe essere 'simbolico' ( sun- ballo ) diventa 'diabolico' ( dià- ballo )?

© Copyright Avvenire, 14 dicembre 2009

IL TESTO E L’AUTRICE

Chiara Giaccardi, PhD. in Scienze sociali all’Università del Kent, in Inghilterra, è professore ordinario presso l’Università Cattolica di Milano.
Insegna Sociologia della comunicazione di massa, Media e comunicazione e Comunicazione interculturale alla facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere.
Coordina la redazione della rivista Comunicazioni Sociali ed è membro del collegio docenti del dottorato in Culture della Comunicazione.
Ha svolto numerose ricerche, nazionali e internazionali, sui temi della comunicazione e dell’identità e da diversi anni si occupa delle trasformazioni sociali e culturali legate ai processi di globalizzazione.
Tra le sue pubblicazioni:

Luoghi del quotidiano.
Pubblicità e costruzione della realtà sociale (1996). (con A. Manzato e G. Simonelli); Il paese catodico. Televisione e identità nazionale in Gran Bretagna, Italia e Svizzera italiana (1998) (con M. Magatti); La globalizzazione non è un destino (2001) (con M. Magatti); L’Io globale. Mutamenti della socialità contemporanea (2003);

La comunicazione interculturale (2005).

Qui pubblichiamo un estratto dal suo intervento su «Immagine della Chiesa e comunicazione mediatica» tenuto all’assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, che si è svolta ad Assisi dal 9 al 12 novembre scorso.

© Copyright Avvenire, 14 dicembre 2009

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