giovedì 17 giugno 2010
Il prete nella vita della Chiesa e della società: il commento di Marco Doldi a conclusione dell'Anno Sacerdotale
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ANNO SACERDOTALE - Resta un dono
Il prete nella vita della Chiesa e della società
Marco Doldi
“Un nuovo brillare del sacerdozio”.
Così ha definito Benedetto XVI l’Anno Sacerdotale appena concluso. Effettivamente, ovunque nel mondo si sono svolte tante iniziative per mettere in luce il significato di un dono che, comunque, resta sempre “mistero”. Così lo intendeva san Giovanni Maria Vianney, protagonista di quest’Anno, quando insegnava ai suoi fedeli che il sacerdozio lo si comprenderà davvero in Cielo; così pensava al suo sacerdozio il grande papa Giovanni Paolo II, che aveva racchiuso la sua vita di sacerdote in due parole: dono e mistero.
Si è posti, dunque, davanti ad un dono di grazia. A questo deve essere lasciato il primato. Certo, ogni sacerdote deve impegnarsi per corrispondere con la vita alle esigenze più radicali del Vangelo, deve costantemente tendere alla santità. Eppure, prima c’è la grazia. Questo è tipico del cristianesimo, il quale non si pone mai come un’etica, come una pura ascesi, ma come l’annuncio di un evento di grazia da parte di Dio.
La grazia ha il primato non solo storico, perché il sacerdote è stato trasformato, ma perché ogni giorno egli è immerso nella dimensione soprannaturale. “Il sacerdote – ha detto Benedetto XVI durante l’omelia del Sacro Cuore, a conclusione dell’Anno – non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita”. Inoltre “pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo… che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e il suo Sangue, e trasformano così gli elementi del modo”. Il sacerdozio – ha aggiunto – “non è semplicemente ‘ufficio’, ma sacramento”. In questo senso, si può certamente dire che è più quello che il sacerdote riceve, che non quello che compie.
Ogni giorno egli vive nella grazia, la respira, se ne alimenta, ne è fortificato. Invisibilmente, ma realmente egli è rinnovato dal dono di Dio, che come manna lo sostiene e lo riempie della presenza di Dio. Che cosa è chiesto al sacerdote? Di non porre ostacoli alla grazia, di lasciarsi plasmare sempre più ad immagine di Cristo, di lasciarsi trasformare la mente e il cuore secondo la misura di Cristo. La santità comincia da qui e si sviluppa in questa prospettiva; altro non è che vivere in pienezza il dono ricevuto e rinnovato ogni giorno. La scelta di diventare sacerdote è “un sì definitivo, un farsi prendere da Dio. Quello del sacerdote è un “sì” a Dio che, come il matrimonio, esige fedeltà nel momento in cui “l’arroganza della ragione oscura la presenza di Dio nel mondo”.
Se Dio scompare, “scompare la radice della nostra cultura”.
Ha detto durante la grande veglia del 10 giugno. Ora, il celibato è proprio il “grande scandalo” e, allo stesso tempo, il miglior antidoto allo “scandalo secondario causato dalle nostre insufficienze mortali”.
Il Santo Padre ha invitato ad avere il coraggio di resistere alla apparente scientificità e non pensare che la ragione positivistica che esclude il trascendente è la vera ragione: è una ragione debole quella che presenta solo le cose sperimentabili.
Il Santo Curato d’Ars, come tanti altri grandi sacerdoti, stanno davanti non per schiacciarci, ma per incoraggiarci. Nessuno potrà mai imitare alla perfezione la loro vita, semplicemente, perché hanno ricevuto doni di grazia straordinari, che li hanno condotti a gesti grandi. Piuttosto, va assimilata la logica che li ha guidati: quella di corrispondere al dono ricevuto e di diventare sempre più immagine vivente di Cristo Signore nella preghiera, nella carità pastorale, nell’insegnamento della parola che salva, nel dono dei sacramenti.
“Dio vuole che noi come sacerdoti – ha detto ancora il Papa, riflettendo sulla missione specifica del clero – in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini. Vogliamo essere persone che, in comunione con la sua premura per gli uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile nel concreto questa premura di Dio”. E, riguardo all’ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme col Signore, dovrebbe poter dire: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Conoscere, nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un sapere esteriore, così come si conosce il numero telefonico di una persona.
Conoscere significa essere interiormente vicino all’altro. Il compito del prete – nelle parole di Benedetto XVI – è quello di “essere accanto alle persone a noi affidate”, anche e soprattutto nelle “notti oscure” della “tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte le luci sembrano spegnersi”.
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