giovedì 31 dicembre 2009

Mulier et magistra. La storia del rapporto tra chiesa e donne riserva sorprese. La parità dei sessi sancita in un concilio (Il Foglio)


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Mulier et magistra. La storia del rapporto tra chiesa e donne riserva sorprese. La parità dei sessi sancita in un concilio

Roma. Non è un caso che l’appello per un sinodo della chiesa sulla donna venga da due donne, Liliana Cavani ed Emma Fattorini, che la storia la frequentano da sempre, per fiction o per ricerca. In effetti il sinodo dei vescovi, istituito da Paolo VI sul finire del Concilio Vaticano II, è uno strumento di lavoro collegiale che ha le sue radici negli albori della chiesa.
Fin dai primi anni – è la Scrittura stessa a testimoniarlo – i cristiani convenivano (questo vuol dire sinodo in greco) per discutere di questioni di fede e di costumi. E pure all’interno di un regime patriarcale, essi trovavano modo di deliberare in maniera innovativa.
E’ il caso del IV Concilio Lateranense (1215) che introduce l’idea di matrimonioì come contratto (conjuratio) per cui esso è valido solo se la donna è consenziente; come ha fatto notare lo storico Jack Goody, è un inaudito tentativo di parità dei sessi e cade in pieno medioevo, epoca che sulle questioni di genere gode generalmente di pessima fama. Chi conosce la storia, invece, sa che la chiesa trovò molti modi per sottrarsi al regime patriarcale di cui pure era protagonista. Nel Settecento, cercò l’alleanza delle donne contro la deriva del libertinismo teorizzato e praticato dai maschi, mentre nell’Ottocento esplode il culto mariano. In effetti, la riflessione teologica e spirituale sulla ragazza di Nazaret è sempre stato il grimaldello con cui forzare le porte del maschilismo ecclesiale.
Resta il fatto che la donna non è mai stata messa direttamente a tema dal Magistero se non nel Novecento, e pour cause.
La fine del regime di cristianità genera la questione femminile, di cui ha già sentore Pio XI nell’enciclica “Casti connubii” (1930) quando, interpretando il celebre passo di Paolo (“Le donne siano soggette ai loro mariti come al Signore, perché l’uomo è capo della donna come Cristo è capo della chiesa”, Efesini 5,22), precisa che “una tale soggezione non nega né toglie la libertà che compete di pieno diritto alla donna…
Se l’uomo infatti è il capo, la donna è il cuore; e come egli tiene il primato del governo, così lei può e deve attribuirsi il primato dell’amore”. La divisione dei ruoli è ancora rigida, ma prefigura un’apertura alle ragioni delle donne che verranno poi sancite con magnanimità dal Vaticano II, il sinodo universale della chiesa catolica che in numerosi passi celebra il “genio femminile”. In realtà, questa celebre espressione connota la “Mulieris dignitatem (1988), lettera apostolica di Giovanni Paolo II. Si tratta di una pietra miliare nei rapporti tra magistero e donne; non a caso viene da un Papa che, oltre a essere stato protagonista al concilio proprio sui temi della famiglia, è di formazione fenomenologica, la scuola filosofica che ha rimesso al centro del discorso il corpo e le sue emozioni. Nelle sue riflessioni Papa Wojtyla restituisce tutta la carnalità dei primi capitoli della Bibbia, la genesi di un incontro che non finisce di stupire, specialmente se lo si confronta con analoghi racconti di creazione.
Sulla scia di Giovanni Paolo II si inserisce la lettera “Sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo” (2004), documento della congregazione per la Dottrina della fede firmato dall’allora prefetto cardinale Joseph Ratzinger. Anche in questo caso l’excursus biblico è amplissimo, a dimostrazione che la Scrittura, dalla Genesi all’Apocalisse passando per le gesta eroiche di Rut ed Ester e le gesta erotiche degli amanti del Cantico dei cantici, è la pietra di paragone di qualunque discorso cristiano sull’argomento. Come nota Ratzinger, la Scrittura ha il merito decisivo di rigettare la “mescolanza f
ra sacro e sessualità presente nelle religioni che circondano Israele”, aprendo a una forma di vita “audace” come la verginità che contesta radicalmente la riduzione della donna (e dell’uomo) al suo destino biologico.
Ribadito che maschile e femminile sono “appartenenti ontologicamente alla creazione”,
osserva come la femminilità appartenga all’uomo in quanto tale e perciò tutti debbano imparare a essere più femminili.
In questo senso si deve “correggere la prospettiva che considera gli uomini come nemici da vincere”: una critica non troppo velata a un certo pensiero femminista contemporaneo, ancora imbrigliato in logiche di rivendicazione e di pessimismo antropologico.
Di tutt’altro genere la proposta di Cavani e Fattorini che mirano alto: non al sacerdozio femminile ma al destino stesso del cristianesimo. Che oggi rischia di soffocare in “una ragione e in una teologia troppo disincarnata”. (mb)

© Copyright Il Foglio, 29 dicembre 2009 consultabile online anche qui.

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