martedì 2 febbraio 2010
Angelus: colpiscono, dell'appello del Papa, il forte accento sulla responsabilità e la chiara identificazione di due vertenze (Riccardi)
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STARE CON CHI LAVORA È PENSARE AL FUTURO
FARE IMPRESA È PRIMA DI TUTTO FARSI CARICO DI PERSONE E TERRITORI
FRANCESCO RICCARDI
Colpiscono, dell’appello del Papa all’Angelus in difesa dei posti di lavoro, il forte accento sulla responsabilità e la chiara identificazione di due vertenze, di due territori specifici.
Un’esplicitazione che va al di là della contingenza di cronaca per assumere un valore emblematico più generale. Dall’inizio della crisi economica mondiale, Benedetto XVI è intervenuto più volte a favore dell’occupazione, così come ha sollecitato imprenditori e manager ad allargare lo sguardo oltre gli stretti ambiti del profitto. Perché allora nominare gli stabilimenti di Termini Imerese e Portovesme, quando i posti di lavoro persi in un anno sono oltre 300mila e ci sono altre migliaia di lavoratori in bilico? Se adesso il Papa avverte l’urgenza di un nuovo richiamo così forte e circostanziato, in sintonia con quello della Conferenza episcopale italiana di qualche giorno prima, crediamo sia perché in quelle due vertenze – nel legame con due territori piagati dalla disoccupazione – vede l’esplicitarsi di uno snodo fondamentale, già illuminato nell’enciclica Caritas in veritate : la centralità dell’uomo anche nel processo economico e la funzione sociale dell’impresa. Qualcosa che va molto al di là del semplice appello a non chiudere questo o quell’impianto, ma investe il senso ultimo del perché e quindi del come si fa impresa. Non è tempo di semplificazioni, né di mercanteggiare qualcosa: incentivi alla vendita di auto in cambio della non-chiusura di Termini Imerese; ulteriori agevolazioni, dopo gli sconti sulle tariffe elettriche, per mantenere aperto lo stabilimento della multinazionale dell’alluminio.
La questione è, per così dire, metaeconomica. Nel senso che il Papa e con lui la Chiesa non entrano nello specifico dei conti economici, delle strategie industriali che attengono alla responsabilità di chi guida le imprese (come di chi governa un territorio). Le aziende devono potersi ristrutturare, guai a pensare che le crisi si risolvano congelando tutto. Ma proprio in virtù di questa stessa responsabilità imprenditoriale e manageriale, ciò che oggi dopo la grande crisi si avverte come esigenza imprescindibile è una diversa interpretazione dell’impresa. Non più un insieme di capannoni sparsi là dove il terreno costa meno (o più alte sono le agevolazioni pubbliche) nei quali si opera un mero scambio tra lavoro e capitale, fintanto che questo porta profitto. Piuttosto un’'intrapresa' come comunità di uomini e donne, radicata in un territorio, per creare sviluppo e benessere a favore dei singoli e della comunità stessa. Se questo è il modello di nuovo capitalismo che vogliamo costruire senza venir meno ai meccanismi di mercato, alla libera iniziativa, la responsabilità personale e d’impresa diviene il perno centrale dell’agire. A cominciare dal farsi carico del futuro di chi ha lavorato con noi, di coloro che hanno contribuito allo sviluppo dell’impresa, di territori cresciuti insieme e a volte per quell’impresa. Perciò risulta inaccettabile l’addio che una multinazionale come l’Alcoa sembra intenzionata a dire alla Sardegna e ai suoi lavoratori; perciò è assolutamente necessario individuare un diverso futuro lavorativo e produttivo per gli operai di Termini Imerese, se – se – davvero la Fiat ritiene non più sostenibile sul piano industriale l’insediamento siciliano. Forse non è più efficiente produrre la Lancia Ypsilon a Termini. Ma la Fiat può ben sforzarsi di immaginare una diversificazione o promuovere una joint-venture o, perché no, finanziare attraverso la cessione agevolata di personale e impianti la nascita di un nuovo business, senza ricorrere alla scorciatoia della messa in mobilità.
In questo sta l’esercizio di quella responsabilità alla quale ha fatto esplicito riferimento il Papa. E che, manco a dirlo, chiama in causa anzitutto le scelte di politica industriale. Ad esempio: siamo certi che il benessere del nostro Paese, un nostro più autentico sviluppo, passi attraverso l’agevolazione per l’acquisto di autovetture, che di nuovo hanno solo la carrozzeria? O quei soldi possono essere diversamente impiegati per finanziare la ricerca e la produzione di altri beni?
© Copyright Avvenire, 2 febbraio 2010
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