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Guy-Paul Noujaim
«Dalla nostra tradizione un contributo all’unità»
DI LUIGI GENINAZZI
Il Medio Oriente vive una situazione drammatica che però può diventare un forte stimolo per una maggior coesione fra le comunità cristiane. Al Sinodo si è parlato molto di questa sfida decisiva che riguarda le Chiese Orientali fra loro e nel rapporto con Roma. Un argomento che sta a cuore a monsignor Guy-Paul Noujaim, vescovo di Sarba in Libano e vicario del Patriarca maronita.
Eccellenza, come favorire una maggior unità delle Chiese?
Dobbiamo ricordare che nei primi secoli la Chiesa era organzzata seconda una pentarchia: al primo posto il Papa di Roma, quindi i Patriarchi di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Oggi la situazione è ovviamente diversa, nel corso dei secoli si sono stabiliti nuovi Patriarcati. Ma io credo che i Patriarchi d’Oriente mantengano un ruolo importante all’interno della Chiesa universale, soprattutto nell’ottica del dialogo ecumenico. Vivendo la comunione con Roma in fedeltà alla tradizione orientale siamo chiamati a rendere il dialogo tra i cristiani sempre più intenso ed efficace.
Il Medio Oriente vede la presenza di diverse Chiese cattoliche «sui iuris», con i propri riti e ordinamenti, spesso caratterizzate da chiusure e scarsa cooperazione. Come favorire una maggiore unità tra i fedeli?
La difesa della propria tradizione e identità deve andare di pari passo con lo spirito di comunione. Spesso invece domina uno spirito di rivalità che danneggia la missione della Chiesa, una e santa.
A cosa si riferisce?
Vede, nel primo millennio c’era un solo vescovo per ogni diocesi. Oggi invece sullo stesso territorio esercitano la loro giurisdizione i vescovi di diverse Chiese. La mia diocesi, ad esempio, ne conta cinque! Ben coscienti del problema abbiamo deciso di creare un consiglio episcopale con un presidente che ruota ogni tre anni. Non basta rafforzare le strutture di comunione, dobbiamo farne delle nuove. I cristiani in Medio Oriente vivono in una grande dispersione col rischio dell’insignificanza. Già ci sono esperienze di pastorale comune, di seminari unici per i candidati al sacerdozio delle diverse Chiese. È questa la strada da percorrere.
Le Chiese orientali, a differenza di quella di rito latino, prevedono la possibilità dei preti sposati. È un vantaggio o un handicap?
Il prete sposato ha il vantaggio di un forte radicamento nel territorio, grazie ai rapporti familiari. Tuttavia bisogna riconoscere che i preti sposati sono di fatto meno disponibili rispetto ai sacerdoti celibatari. Ma sia gli uni che gli altri hanno il loro posto nelle nostre Chiese, dipende dalla vocazione personale. Io ad esempio ho scelto il celibato perchè mi sembrava importante la totale disponibilità al servizio pastorale.
Come vivono i cristiani libanesi il confronto con l’islam?
Fino a mezzo secolo fa in Libano i cristiani erano in netta maggioranza, 70% della popolazione.
Oggi sono poco più del 30%. Questo non ha avuto solo conseguenze sul piano politico ma anche su quello pastorale: la Chiesa ha perso slancio missionario, rischia di chiudersi in una prospettiva di pura sopravvivenza. Ma dipende da noi più che dai musulmani. La loro religiosità è uno stimolo anche per i cristiani.
Ma questo discorso vale anche nei confronti dell’islam sciita degli Hezbollah?
Quando si parla degli Hezbollah come di un movimento fondamentalista dobbiamo tener presente che non è la stessa cosa di Al Qaeda. Con loro c’è un dialogo di tipo culturale, abbiamo tenuto insieme un convegno sul concetto di martirio e di testimonianza. Il che non toglie il nostro totale dissenso politico con gli Hezbollah, un partito più armato dello Stato che obbedisce ad una potenza straniera.
© Copyright Avvenire, 24 ottobre 2010
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