martedì 9 novembre 2010

Viaggio del Papa nel Regno Unito, il reverendo anglicano Andrew Davison: «È venuto per portare Cristo» (Fabrizio Rossi)

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CHIESA - IL PAPA IN GRAN BRETAGNA

«È venuto per portare Cristo»

Fabrizio Rossi

L’incontro con la regina Elisabetta. La beatificazione del cardinale Newman. La veglia con 100mila giovani... Il viaggio di Benedetto XVI in Gran Bretagna ha superato ogni previsione. E ha sfidato tutti «a fare i conti con un uomo in carne e ossa». Per un vero ecumenismo. Il reverendo anglicano ANDREW DAVISON ci spiega perché «ciò che condividiamo in Cristo è più grande di ciò che ci divide»

«Un evento storico».

Tre giorni dopo il rientro in Italia, Benedetto XVI ha descritto proprio così il suo viaggio oltremanica. Dove in 70mila hanno partecipato alla messa a Glasgow, 100mila alla veglia in Hyde Park e 80mila alla beatificazione del cardinale Newman. Più dei numeri, però, a parlare sono i volti. Quelli delle persone, credenti e non, che ai bordi delle strade si sbracciavano al passare del Papa. Quelli dei politici che hanno ascoltato le sue parole nella Westminster Hall. Quello dell’arcivescovo Rowan Williams, primate degli anglicani, che con un abbraccio ha detto ben più del dovuto. Ma anche quelli dei genitori di Anton, 9 anni e già in lotta con un tumore, che sono scoppiati a piangere quando il Papa l’ha benedetto e gli ha messo una mano sulla spalla.
Per il reverendo anglicano Andrew Davison, docente di Dottrina alla Westcott House di Cambridge, «questa visita è stata una catena di incontri, reali, tra le persone». Preso dal rush che precede l’inizio dei corsi in università, non era tra la folla che ha accolto Benedetto XVI, ma ha seguito ogni tappa del viaggio in tv e sui giornali. Anche perché non può dimenticare quel pomeriggio del 2002, quando il cardinale Ratzinger aveva ricevuto lui, giovane seminarista, per parlare di teologia: «Già allora mi colpì il suo calore umano. Come il suo interesse per me e la mia Chiesa». Quel calore e quell’interesse che gli hanno fatto esclamare, davanti a centinaia di anglicani e protestanti riuniti nell’abbazia di Westminster: «Il nostro impegno per l’unità dei cristiani non ha altro fondamento che la nostra fede in Cristo».

Che cosa ha significato per lei questa visita?

Mi ha interrogato vedere che la Chiesa universale si incarna in un particolare essere umano. Però, pur condividendo quasi tutte le caratteristiche del cattolicesimo, dai santi all’Eucaristia, ci sono ancora alcuni aspetti del rapporto dei cattolici con il Papa che mi lasciano perplesso.

Cosa intende?

Parto da un episodio. Un amico cattolico l’altro giorno mi ha detto, indicando il Papa: «Tutta la mia vita è un dono che non ci sarebbe, se quell’uomo sull’elicottero non fosse presente nella Chiesa». Ecco, prima ancora di non condividere quest’affermazione, non riesco proprio a concepirla. Rimango un protestante, nel senso originale del termine, quasi solo su questo punto: non condivido ciò che il Papato è diventato dopo l’età patristica. Ma questo viaggio mi ha provocato a dargli più credito: dietro quell’uomo, c’è più di quanto pensassi.

Come ha ricordato il Papa nell’abbazia di Westminster: «Ciò che condividiamo in Cristo è più grande di ciò che continua a dividerci»...

È proprio così. Se quel che condividiamo in Cristo è Cristo stesso, c’è qualcosa che vale di più? Noi tutti, anglicani o cattolici, siamo parte del Suo corpo grazie al Battesimo. Ma non significa che le nostre divisioni, allora, non siano tragiche: per esempio, non possiamo condividere la Sua mensa nella liturgia. Nella mia esperienza vedo che l’ecumenismo, però, è vivo a livello locale, da persona a persona. Quindi mi sono sentito davvero incoraggiato nel sentire queste parole.

Che cosa l’ha colpita in particolare nel viaggio del Papa?
Vedere un uomo contento di trovarsi con noi. Ci ha richiamati all’importanza di un incontro reale tra le persone: solo così un rapporto può migliorare. È venuto per portare Cristo, e nel mio piccolo è lo stesso compito che cerco di svolgere. Mi ha anche colpito quel che ha detto agli esponenti della politica, della società e della cultura nella Westminster Hall.

Quando ha ricordato che «il mondo della ragione ed il mondo della fede - il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso - hanno bisogno l’uno dell’altro, per il bene della nostra civiltà»...

Ha continuato il discorso avviato a Ratisbona, quel capolavoro così tragicamente sovrastato dai fraintendimenti sull’islam. Il posto della fede nella vita pubblica era il leitmotiv di tutta la visita, ed è stato davvero azzeccato. Anche perché la secolarizzazione in Gran Bretagna è un problema complesso. Da un lato, la vita del nostro Paese è ancora notevolmente cristiana: pensi che a Cambridge ci sono 31 college, quasi tutti con almeno un cappellano anglicano a tempo pieno. Dall’altro lato, però, si fa strada un nuovo tipo di ateismo: è evidente soprattutto nei circoli intellettuali, nonostante la sconvolgente povertà dei suoi argomenti.

Davanti a 4mila studenti, il Papa ha esortato tutti i giovani a «non perseguire un obiettivo limitato», perché «la cosa che Dio desidera maggiormente per ciascuno di voi è che diventiate santi». Cosa significa, per un ragazzo di oggi, sentire queste parole?

Il Papa ha colpito nel segno. Innanzitutto perché quella è la stessa chiamata del Vangelo a vivere come Cristo: abbiamo una sola vita da vivere, perciò non possiamo accontentarci della mediocrità. Ma c’è anche una ragione meno scontata: le parole del Papa sono esattamente ciò che serve ai giovani. Lo vedo in quel che faccio ogni giorno: se invito un adulto a seguire Cristo, spiegandogli che così perde tutto ma guadagna Cristo stesso e contribuisce a cambiare il mondo, vengo guardato con diffidenza. Alla stessa sfida, invece, un giovane risponde con un’adesione totale. Quindi è sbagliato pensare che, per attrarre i ragazzi, dobbiamo presentare la vita cristiana come qualcosa di facile. Per questo, spesso racconto loro le vite dei santi.

Secondo lei, da dove nascevano l’indifferenza e l’ostilità dei mass media rispetto al viaggio?

Confesso che non m’è mai piaciuto tirare in ballo un’«ostilità» dei media alla cristianità, in Gran Bretagna. Piuttosto, si tratta di freddezza e incomprensione: altrimenti, come dovremmo definire la situazione dei cristiani in Pakistan o in Arabia Saudita? Ad ogni modo, con la visita del Papa mi sono ricreduto.

In che senso?

Sono rimasto colpito dalla slealtà con cui il mondo dell’informazione l’ha affrontata, nelle settimane precedenti. Ha ragione, c’era dell’ostilità. Allora mi sono chiesto: perché la religione, e in particolare il cattolicesimo, è così invisa a certa stampa? Eppure, se prendiamo per esempio i periodici legati alla sinistra, dovrebbero condividere con la Chiesa una sensibilità per i poveri. In questo vedo una sfida per anglicani e cattolici: dobbiamo riconquistare il rispetto dei tanti uomini di buona volontà.

Come spiega, invece, il capovolgimento radicale di quasi tutte le testate, che hanno poi riconosciuto il successo del viaggio?

Mi ha colpito molto. Il Telegraph ha apprezzato «il grande coraggio» dimostrato dal Papa, il Mail ha parlato della «sete di fede» dei britannici... Era evidente che la visita era riuscita. E tutti hanno dovuto fare i conti con l’uomo Benedetto XVI: è facile gettare fango sull’idea che si ha di una persona, sulla sua caricatura. Ma è ben diverso quando quella persona ti viene incontro, in carne e ossa, con la sua nobiltà nel parlare e i suoi modi cortesi.

Qualcuno temeva che la beatificazione di John Henry Newman, il parroco di Oxford convertitosi al cattolicesimo, avrebbe creato ostacoli al dialogo con gli anglicani...

Nient’affatto. Del resto, basta guardare la sua storia, per vedere che importanza enorme avevano per lui l’amicizia e la vita in comunione. Già quando era studente, fino agli ultimi anni negli Oratoriani di san Filippo Neri, Newman ha sempre vissuto in comunità. Non a caso, il suo motto era: «Il cuore parla al cuore». È quel che ho capito quando ho conosciuto delle persone di Comunione e Liberazione: lì ho ritrovato, vivo, lo spirito di Newman che per me era solo nei suoi scritti. Perché la sua vicenda, in fondo, conferma l’esempio di Cl: la santità cresce in una vita vissuta insieme.

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