venerdì 18 giugno 2010

P. Jaeger: I dialoghi Santa Sede-Israele per disinnescare frizioni e incertezze (Arieh Cohen)


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VATICANO - ISRAELE

P. Jaeger: I dialoghi Santa Sede-Israele per disinnescare frizioni e incertezze

di Arieh Cohen

Vi sono “progressi”, ma occorre giungere a un accordo globale sui negoziati che si protraggono dal 1993. Un accordo basato su regole condivise permetterebbe alla Chiesa di vivere con meno incertezza e ridurrebbe le frizioni con lo Stato d’Israele, snellendo anche i problemi del governo. Molto urgente anche la nascita di una diocesi “personale” per i cattolici di lingua ebraica, che possano dialogare con la società israeliana.

Tel Aviv (AsiaNews) – Il 15 giugno scorso si è tenuta in Vaticano la sessione plenaria della Commissione bilaterale permanente di lavoro fra la Santa Sede e lo Stato d’Israele. Quasi subito diversi media israeliani hanno riferito che in questo round sono stati raggiunti accordi su una serie di temi, tutti oggetti di negoziati fin dall’inizio, l’11 marzo 1999, fra cui l’integrità dei Luoghi santi e la conferma delle esenzioni dalle tasse per le istituzioni ecclesiastiche. Ma è proprio così? AsiaNews ha posto la domanda al giurista francescano p. David-Maria A. Jaeger, noto esperto sulle relazioni fra Stato e Chiesa in Israele. La sua prima risposta è questa:
In questo, come in tutti gli altri casi, la sola informazione credibile è quella che viene dal comunicato congiunto che si pubblica alla fine della sessione. Tale comunicato parla di ‘progresso’ che è stato raggiunto. Per obbiettività, questa è anche la sola informazione che può essere data. I temi dei negoziati sono ben conosciuti. Essi sono specificati nell’articolo 10 par. 2 dell’Accordo fondamentale fra la Santa Sede e lo Stato di Israele (1993), e cioè le questioni delle proprietà, le questioni fiscali e alcune questioni economiche. Queste ultime, si sa, vertono sulla partecipazione dello Stato ai servizi educativi e sociali della Chiesa, che sono a beneficio di tutta la popolazione dello Stato. Dietro questi titoli, è chiaro, vi sono molte questioni particolari.
Un altro fatto noto è il principio su cui si basa il negoziato: Non vi è accordo finché non vi sarà un accordo su tutto. Ciò significa che non ha alcun significato dire che sono stati raggiunti accordi su un qualche tema, dato che vi sarà accordo solo quando si raggiungerà l’accordo su tutti i temi dell’agenda. Finché ci sono temi non risolti, non vi è accordo su nulla. Questo è un principio metodologico adottato con saggezza da entrambe le parti, quale corretta interpretazione del mandato incluso nell’Accordo fondamentale di negoziare un “accordo globale”.

Ad ogni modo ci sarà qualche segno che i negoziati procedono o no. Quanto vicine sono le due parti al raggiungimento di un accordo?

Certo, i negoziati procedono in avanti. È sufficiente leggere il comunicato congiunto pubblicato dopo ogni sessione. Credo che un’accorta lettura di questi indica che le parti sono impegnate in modo molto serio nello sforzo e che i dialoghi vanno avanti. Di nuovo, nessuno, nemmeno i negoziatori stessi possono fare alcuna previsione sui risultati e sui tempi necessari alla conclusione.

Se i negoziati giungono a conclusione, e “l’accordo globale” viene attuato, che significato avrà per la Chiesa in Israele?

Sicurezza legale e fiscale. La situazione negli ultimi 62 anni è caratterizzata dall’assenza di regole condivise su questi temi chiave, come l’esenzione fiscale per la Chiesa. La Chiesa stessa confida su una solida eredità dei trattati internazionali, risoluzione Onu e altre fonti legali, che non sono lette allo stesso modo dallo Stato.
Il risultato nella vita quotidiana è una frizione permanente e un’endemica incertezza, che ha conseguenze uteriori. Con chiare regole in atto, accettate da entrambe le parti, la Chiesa in Israele potrebbe riguadagnare una certa serenità che essa non ha avuto per lungo tempo, e sarà rimossa una delle cause di irritazione a un buon rapporto con lo Stato. Ci sarà finalmente una “relazione nasata sulle regole”.

Lei pensa che Chiesa e Stato sono pronti a questa stagione di “rapporti basati sulle regole”?

La Chiesa lo ha sempre desiderato perché solo una relazione così può garantire sicurezza e tranquillità. Entrando nei negoziati sull’Accordo Fondamentale con la Santa Sede, già il 29 luglio 1992, lo Stato ha in effetti proclamato che accettava questo principio. Da allora sono passati 18 anni e, in generale, il movimento è andato avanti. Ovviamente, a livello pratico, occorre qualche aggiustamento. Mi permetta di farle solo un esempio: in assenza di regole chiare, un certo numero di casi in cui era necessaria la mediazione fra le istituzioni ecclesiali e i ministero del governo, hanno dovuto essere risolte da rappresentanti del governo nominati apposta per quegli scopi. Se invece vi sono delle regole, non ci sarà più bisogno di questo e le istituzioni di Chiesa dovrebbero essere capaci di agire in modo diretto con ogni dipartimento del governo. Naturalmente questo significa che la Chiesa si dovrà assicurare personale sufficiente che sappia dialogare con il linguaggio e con le istituzioni della maggioranza di lingua ebraica in Israele, e dovrà seguire più da vicino e interagire di più con la vita della nazione e le sue istituzioni.

Per molti anni si è parlato della possibilità di creare una “diocesi personale” per i cattolici di lingua ebraica in Israele, per facilitare il dialogo con la maggioranza che parla ebraico. Pensa che questo progetto possa andar bene in questa nuova situazione?

Questo è un altro problema. Personalmente io sono stato fra quelli che hanno a lungo sperato per la nascita di qualcosa di simile. Ancora più importante è che Giovanni Paolo II ha fatto un passo verso una decisione in questo senso quando ha nominato un “vescovo ausiliare con speciali facoltà” per la cura pastorale dei cattolici di lingua ebraica (nella persona di p. J.B. Gourion, che è poi morto, al momento senza un successore).
Ad ogni modo, questo progetto va accolto con molta cura e definito in modo molto preciso. In particolare è di importanza vitale che le altre diocesi che vivono in Israele (e ce ne sono varie di diversi riti, latino e orientale) non guardino a questo come un modo per introdurre una “divisione” nella Chiesa, ma piuttosto un arricchimento, a servizio di tutti, per rendere più vicina la Chiesa al popolo e alle istituzioni della maggioranza di lingua ebraica. Penso che questo può essere fatto, ma è ovvio che solo il papa può prendere una simile decisione.

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